da Buzz » gio gen 12, 2006 22:04 pm
"Non nego che la questione abbia un risvolto pratico e razionale, ma tu prova ad ascoltare i discorsi degli alpinisti, le loro infinite dispute sulla sfumatura del grado, la loro pretesa di sapere se tale via sia, di quel nulla magari, più difficile o più facile di quell'altra; prova a cogliere la smania del neofita nel chiedere se il passaggio appena compiuto valga cinque bi meno o cinque a più; prova a soppesare tutta l'insistenza, la cavillosità, il rigore, il fanatismo che gravano sulle questioni di classificazione, e vedrai che, se solo un poco conosci l'animo umano, neppure tu farai difficoltà ad ammettere che nessuno di costoro, quando se ne interessa o ne parla, pensa al risvolto pratico, ossia ad agevolare i ripetitori.
Sono soltanto contorsioni del più disperato narcisismo, invece, sono i disordinati sintomi di un bisogno patologico di dichiarare il proprio valore. E tutto portando la grossolana testimonianza di un numero: celebrando la quantità, appunto.
Resta, però, che l'esperienza della difficoltà non sarebbe in nessun modo quantificabile. Non ci sarebbe nemmeno ragione di paragonarla con altre esperienze. Che gli giova al primo salitore sapere quanto è stata difficila la sua via?
Lo hanno capito il suo fiato, i suoi muscoli quanto era difficile; glielo ha detto la sua apprensione, talvolta la sua paura; glielo suggerisce continuamente il suo ricordo, lo conserva indefinitivamente la sua anima. Non c'è un più o un meno davanti a ciò che ha fatto, ma un questo e un quello, un così e un altrimenti. La via non conta niente: la via c'era sempre, con le sue placche i suoi camini e i suoi tetti. Anche prima che vi arrivasse l'alpinista. E la salita che conta invece: è l'esperienza!
Pensi davvero che giovi ai ripetitori conoscere le difficoltà? Oppure gli toglie qualcosa? Non pensi piuttosto che spersonalizzi la loro esperienza, il loro rapporto con la difficoltà, rendendo quest'ultima soltanto una quantità fissa e assoluta come un peso da sollevare, una distanza da superare, un tempo cronometrico da accorciare?
Ci sono sempre delle ragioni di sicurezza. Un ripetitore dovrebbe sapere a cosa va incontro?
E perchè mai dovrebbe saperlo?
Per non dover fallire un tentativo su tre?
Ci si è allenati a tutto; allenarsi un pò più a fondo nell'arte della ritirata non avrebbe fatto certo male all'alpinismo. Gli avrebbe fatto anzi bene.
L'incognita sarebbe rimasta - anche nelle ripetizioni - un fattore determinante: relativo s'intende, ma determinante. Forse sarebbe aumentato il rischio, ma un alpinismo che procede verso l'eliminazione del rischio è un alpinismo che procede verso l'eliminazione di se stesso.
Diciamo piuttosto che la psiche degli alpinisti non avrebbe retto ad una dimostrazione tanto continua e frustrante dei loro limiti.
Diciamo piuttosto che una bella e onesta carriera di ripetizioni portate a termine - così com'è da sempre il caso più frequente - conferisce a tutti una sufficiente illusione di grandezza, o in ogni modo appaga il bisogno di autostima assai più dell'esercizio di un frequente fallimento.
Esercio onesto e coraggioso però, e del tutto fortificante per dei caratteri rigorosi come quelli che s'impongono di avere gli alpinisti.
No. Non gioverebbe neppure ai ripetitori; perlomeno a quelli che, salendo le montagne, credono di praticare qualche cos'altro che uno sport.
Questi piccoli obiettivi pretestuosi che sono i centimetri, i decimi di secondo, i centri da cogliere - nel nostro caso i gradi o le frazioni di grado da superare - servono solo a vedere chi è più bravo: a niente altro.
Se l'obiettivo di un alpinista non riesce ad essere diverso, se in cuor suo non chiede di più a ciò che fa, se, in altre parole, cerca il successo perchè il contenuto della sua esperienza personale gli è insufficiente, il suo rapporto con la montagna non può essere altro che sterile: pretestuoso appunto. Insignificante.
Lasciamo dunque alla montagna il suo mistero. Non vada chi la pratica a misurarne il centimetro, a segnarne ogni tragitto, a descriverne ogni minima difficoltà giustificandosi col beneficio che altri ne trarranno, quando ogni suo atto è dettato dalla purà vanità, dalla voglia di distinguersi, di promuoversi, di mettersi in mostra.
Essere qualcosa non basta?
Bisogna che sappiano tutti ciò che siamo, quanto valiamo e che ce lo misurino addosso?
Tanto forte è l'angosciosa incertezza di sè che tormenta tutti noi?
Ecco: la certezza di sè.
Si vada a cercare quella sui monti e non frammenti, briciole di un numero che non dice nulla."
"narcisi di montagna" nereo zepper