da repubblica di oggi...con Mauro Corona che faceva Giuda...
A Erto, sopra il Vajont, una via Crucis da far invidia
a Mel Gibson. Dove anche il prete si fa vedere
Bastonate vere al Cristo attore
ERTO - Nevischia nella notte, lassù tra le fiaccole il Cristo vivo è inchiodato alla croce, i colpi echeggiano sulle montagne piene di nubi, i tre corpi appesi sono issati in cima alla collina, una luce rossa inonda tutto, insanguina anche la neve che cade. In basso, migliaia di persone fradice ascoltano in silenzio, non ci sono microfoni, per sentire l'agonia devono tendere l'orecchio. Poi torna il buio, è la fine; un applauso riempie come una grande pioggia la conca bastarda del Vajont.
Non è il Cristo di celluloide, il grandguignol di Mel Gibson. E' una Passione italiana. Quella di Erto, il paese della frana del ?63. Erto: ma potrebbe essere Puglia, Umbria, Campania. Dalle Alpi alla Sicilia è la stessa passione feroce, la stessa violenza sacra, liberatoria. L'anima profonda del Paese. E' meglio, molto meglio di Gibson. Ma l'Italia senza memoria se ne accorge solo ora, che il kolossal americano riempie le sale. Riscopre le sue Passioni.
Comincia al tramonto, con l'ultima cena in piazza, un turbine di corvi sopra il paese e nubi che tracimano dalla diga assassina, a dire che la Luna ha tradito ancora, l'inverno non finisce mai. Ammonimento e preludio, memoria della distruzione che fu e della morte-rinascita che deve venire. Non c'è un regista, un costumista, niente. Ognuno fa quello che vuole, in un'anarchia dove tutto, non si sa come, funziona. Anzi, funziona proprio per l'assenza di regole.
Si accendono le luci nelle cappelle, il paese si popola. Gli elmetti dei soldati romani grondano, Pilato sfiata vapore come un cavallo. Il capo del servizio d'ordine dei sacerdoti - Filippin Giuseppe, anni 72, fratello di Bortolo - corre alla partenza con una mazza ferrata in mano, berretta da baleniere, la faccia rossa in una selvaggia cornice di barba e capelli candidi. Fa la Passione da bambino, quando portava la cassetta dei chiodi e la scritta "Inri".
"Sono secoli che ci tramandiamo le parti in famiglia". Gli interpreti sono ormai entrati nei personaggi, ci abitano stabilmente. "A furia di fare Giuda stavo per diventarlo sul serio" racconta lo scrittore-boscaiolo Mauro Corona. Forse l'intera vita di Erto è una rappresentazione. Attaccano i tamburi, arrivano da ovunque, hanno un ritmo ossessivo. Pelle di cane o di capra, lasciata conciare nel letame. Migliaia di ombrelli riempiono le stradine, ormai fa buio, la processione va, ed è come se venissero anche i morti. Il paese, ti dicono, è pieno di anime. Sono lì intorno che ti chiamano. Solo il corpo è assente.
"Quando maltrattiamo dio, mica facciamo finta" spiega Corona, a dire che quello è un antico regolamento di conti. Azzarda: "Forse è un modo per tirarlo giù dal cielo e dargli una lezione". Di sicuro, in passato, è successo che un Cristo sia stato a letto per giorni per riprendersi dalle legnate mentre a un altro mancò poco che gli rompessero le gambe. Ma il prete dov'è? Guai se si fa vivo, lo cacciano via. Succede dagli anni Cinquanta, quando il mondo conobbe Erto per via della diga in costruzione. Dopo secoli di oblìo, la gente scoprì quella folle Passione sulle Alpi, e i montanari duri, sentendosi al centro dell'attenzione, andarono sopra le righe, bestemmiarono in pubblico. Il prete disse: basta, ora organizzo io. Risultato: gli ertani fecero da soli.
Non è posto per prelati, questo. Nell'Ottocento, quando il vescovo udì storie di incesti e venne su in portantina, gli ertani lo rovesciarono nella scarpata giù dal sentiero dei carbonai. Una fede da bracconieri, popolata di sogni e paure, segreti e leggende. "Dio no l'è quel che i copa stasera. Dio l'è qua, dentro i alberi" dice Corona abbracciando un faggio per sentirne l'energia oltre la pioggia.
Qui non si muore di morte naturale. Si crepa di vino o precipitando dai sentieri. Guerinin, Cristo, lo trovarono in un burrone abbracciato al camoscio che aveva accoppato. E allora pare quasi che il paese celebri la crocefissione propria. La sua condanna di posto maledetto, i secoli di solitudine a pascolar capre sugli strapiombi, fin quando vennero gli ingegneri, piantarono un cuneo nella valle e poi un tuono lungo azzerò tutto, vita, orologi, affetti.
Tutto, ma non quella cerimonia. Racconta il guardiacaccia Italo Filippin: "Quando tornammo qui da clandestini, disobbedendo a chi ci aveva trasferito in pianura, la prima cosa fu rifare la Passione. Era il solo modo per far rivivere l'anima del paese". Vennero Caifa, Giuda, Pilato, Gesù, il buon ladrone, la pubblica accusa. Si sedettero attorno a una bottiglia di vino e decisero di non mollare. Molti sono ancora lì, nella pioggia, come ogni anno. Tra le fiaccole e la neve che cade