l'alpinismo d'antan - i miei ricordi

Arrampicata e alpinismo su roccia in montagna

Messaggioda Bokko » gio ago 20, 2009 15:45 pm

sono nuovo del forum ed ho scoperto oggi questo topic e me ne sono innamorato. I bellissimi racconti di Daniele mi hanno calamitato e ho passato 2 ore a leggerli (va bhe che sono al lavoro e non potrei).
stupendo che bei racconti e che bel modo di andare in montagna...non i fissati del grado o della quota!!!!
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Messaggioda danielegr » ven ago 21, 2009 17:36 pm

Visto che abbiamo tirato in ballo il Passo delle Coronelle racconto una storiella di quando ero giovane, inesperto, incosciente ma sempre in cerca di nuove esperienze. Con uno dei miei amici a quasi diciassette anni avevamo deciso di andare a fare un giro in bicicletta per l'Alta Italia, nell'anno 1953. Partenza da Milano per Brescia, Lago di Garda, Trento, Bressanone, Dobbiaco, Venezia, Lucca (da Venezia a Lucca in autostop ? avevamo spedito le biciclette in treno) Genova, Cannes, Cuneo, Valle d'Aosta, Piccolo San Bernardo, Ginevra, Sion, Passo del Sempione e ritorno a Milano. Ma questo riguarda la parte ciclistica che non interessa in questo Forum. Quello che volevo dire è che arrivati in val di Fassa, a Soraga, decidiamo di prenderci un giorno di vacanza dalla bici e di farci invece una bella passeggiata in montagna.
Detto fatto, con sublime incoscienza, in pantaloncini corti, camiciola a maniche corte e soprattutto delle ignobili scarpette da tennis, di quelle in tela e con la suola liscia ci avventuriamo in montagna.
Era un tipo di scarpa molto comune fra i ragazzi in quegli anni: non mi pare di vederne più in giro ? sia ringraziato Iddio!! - la parte superiore era in tela e la suola, molto sottile, in gomma. Il piede assolutamente non respirava e questo ? beh, ve lo lascio immaginare.
Con questo ?ottimo? equipaggiamento partiamo in direzione del Passo delle Coronelle. Passeggiata facile, ottimo sentiero (parlo del 1953, naturalmente) traversiamo anche qualche nevaio ma le scarpette da tennis sembrano resistere. Arriviamo a un Rifugio del quale naturalmente non ricordo il nome, e ci prendiamo i più che giustificati rimbrotti da parte degli escursionisti presenti che vorrebbero impedirci di salire al Passo con quell'equipaggiamento approssimativo, e ci ricordano che in montagna, per di più oltre i 2.500 metri, non si scherza e le disgrazie fanno presto ad arrivare, ma noi, con l'incoscienza tipica dei diciassette anni la prendiamo sul ridere e andiamo lo stesso. Finché si tratta di andare al passo tutto bene, anche se c'è da pestare un po' di neve, ma arrivati al colle, dopo un po' di riposo incominciamo a pensare alla discesa. Tornare giù per la stessa strada? Non sia mai che facciamo una così banale!! E poi, se è un ?passo? vuol dire che bisogna salire da una parte e scendere dall'altra. Ci sembra di vedere una traccia di sentiero che scende per un ghiaione. Molto ripido, però: che facciamo, scendiamo lo stesso? Certamente: se c'è una traccia di sentiero... mica ci spaventiamo per così poco noi! E allora via!! Naturalmente, dopo pochi metri la presunta traccia sparisce, probabilmente non era una vera traccia ma forse un qualcosa dovuto alla caduta di alcuni sassi, o più probabilmente dallo scioglimento delle nevi. Comunque incominciamo a scendere, cercando di stare attenti a non far cadere troppi sassi. ma diventa sempre più difficile: a ogni passo si corre il rischio di scivolare a valle.
Il buon senso avrebbe detto: visto che è così complicato, risaliamo questi pochi metri e torniamo per la strada già percorsa. Ma il buon senso raramente alberga in ragazzotti diciassettenni... Quindi giù ancora, anche se ad ogni passo che facevamo quintali di sassi rotolavano a valle e incominciavamo seriamente a temere che insieme a quei sassi saremmo rotolati anche noi. Non ricordo di aver mai avuto tanta paura come un quell'occasione, nemmeno quando mi sono distorto una caviglia sullo Zuccone di Campelli. Non saprei dire quanto tempo ci sia voluto per la discesa, tanto comunque, diverse ore, ma finalmente siamo arrivati a valle anche se facevamo fatica a crederlo. Il largo sentiero in terra rossiccia che ancora ci separava dalla nostra base potevamo percorrerlo tranquillamente: era tardi e la luce incominciava a scarseggiare, però lì era impossibile sbagliare. Finalmente arriviamo alla locanda: è buio, siamo stanchi morti, ma vivi!! Quante volte, da alpinista oramai preparato e ben allenato avrei voluto tornare su quel canalone per valutare le reali difficoltà di quella discesa... Però non l'ho mai fatto. E vista la foto postata da Climbalone, è stato meglio così.
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Messaggioda danielegr » lun ago 24, 2009 15:04 pm

Visto su "Lo Scarpone" del Marzo 2006

Nell?estate del 1965 l?isola di Upernivik (72° latitudine nord), che sorge da un mare costantemente percorso dagli iceberg nella Groenlandia occidentale, è stata la meta di una spedizione alpinistica ed esplorativa della Sezione di Milano.
L?isola con un territorio montuoso di circa 500 chilometri di superficie era all?epoca disabitata e al suo interno del tutto sconosciuta.
Upervinik venne scelta come meta dal Corpo degli Istruttori della Scuola nazionale di alta montagna ?Agostino Parravicini?. Era la prima spedizione interamente composta da istruttori della scuola di cui il capospedizione, Guido Della Torre, era direttore. Gli altri componenti erano Tino Albani, Siro Colombani, Alberto Di Benedetto, Gianfranco Farassino, Pietro Magni, Aldo Rusconi e
Angelo Villa.
Tutti giovani ed entusiasti, avevano dovuto arrangiarsi con l?organizzazione e i finanziamenti.
Risolti questi problemi, non piccoli negli anni Sessanta, la spedizione partì da Milano il 19 luglio e raggiunse l?isola il 23 dopo un viaggio avventuroso. Piazzato il campo base sulla costa, l?attività alpinistica ebbe subito inizio nonostante la complicata orografia dell?isola ponesse seri ostacoli. Piazzato un campo avanzato sul bacino superiore del ghiacciaio di Sermikavsak, piuttosto tormentato e ricco di seraccate, le cordate attaccarono e conquistarono le principali cime. Nei 20 giorni di permanenza vennero salite 15
cime per 16 itinerari, sei dei quali di grande difficoltà. Le cime, di una altitudine media intorno ai 2.000 metri, sono state spesso salite in condizioni atmosferiche negative. Più della metà delle giornate sono state caratterizzate da neve e vento forte.
L?ambiente ricordava quello delle nostre Alpi dai 3.500 metri in su. Molte cime sono state chiamate con i nomi di istruttori della Parravicini caduti in montagna (Giorgio Bianchi, Eugenio Lazzarini, Giuseppe De Capitani, Roberto Pluda, Alberto Calonaci, Romano Merendi, Attilio Piacco, Luciano Tartaglione e Luciano Prisco) o per malattia (Battista Cesana).
Due cime sono state dedicate rispettivamente alla Sezione del CAI di Milano che aveva patrocinato la spedizione e alla città di Milano e la Parravicini ha ricevuto un particolare attestato di benemerenza dal Comune per ?la importante spedizione? e per la ?trentennale attività svolta senza fini di lucro.?
Il sodalizio di via Silvio Pellico ha voluto ricordare la spedizione il 13 dicembre con una serata durante la quale Tino Albani, Siro Colombani e Angelo Villa hanno raccontato la loro esperienza e commentato il film-documentario ?Dalle cime le stelle nel mare? girato durante la spedizione. Testimonianze e ricordi preziosi per i giovani della Parravicini di oggi.
Carlo Lucioni
Presidente Sezione di Milano


Il nome esatto dell'isola credo che sia Upernavik, anziché Upernivik (che tra l'altro qualche riga più sotto viene chiamata Upervinik) , che è il nome di un'altra isola, sempre sulla costa groenlandese, ma alquanto più a Sud (60° anziché 72°)
Mi rattristo sempre quando leggo di questa spedizione, e in particolare quando leggo i nomi dei compagni alle quali sono state dedicate le cime:
Romano Merendi, Accademico, era il custode del Rifugio SEM in Grigna; era stato anche il Direttore della Parravicini. E' scomparso nel gruppo del Cervino. Non mi risulta che sia mai stato trovato il corpo;

Eugenio Lazzarini, detto Genny: operaio alla Pirelli, di una scrupolosità totale. Tutte le volte che partiva per la montagna si assicurava di non avere nessun debito con amici o colleghi. Era parecchio miope, ma era quello che vedeva per primo un chiodo in parete: ?tel lì el ciod?
Giuseppe De Capitani: un ragazzo timido, molto generoso, anche perchè era l'unico ricco di famiglia nel nostro gruppo; Studiava Matematica pura mi pare al Politecnico;
Giorgio Bianchi: il ?ragazzo prodigio? del gruppo. Arrampicava da poco tempo, ma era diventato di gran lunga più bravo di tutti noi su roccia. Con lui ricordo di aver fatto la Rizieri al Sigaro. Cercò anche di farmi fare la Comici al Nibbio (sempre in Grigna) ma, sebbene mi avesse spiegato e fatto vedere più volte l'attacco (che era il punto più difficile), non riuscii a passare.
Tutti e tre, Genny, Giuseppe e Giorgio, furono travolti dalla caduta di una cornice nel gruppo del Bianco.
Roberto Pluda: che dire di Roberto, era il mio più caro amico della montagna. Insieme avevamo frequentato da allievi la Parravicini, il nostro istruttore era Valerio. Quante salite, quante arrampicate, quanta acqua abbiamo preso insieme...
Alberto Calonaci, cadde, insieme a Roberto, nella discesa dalla Tour Ronde, probabilmente a causa della nebbia che aveva fatto perdere l'orientamento;
Attilio Piacco, Luciano Tartaglione e Luciano Prisco, Battista Cesana. Questi non li ho conosciuti, erano delle generazione precedente alla mia. Piacco so che cadde nel gruppo del Masino, mi sembra dalla Punta Torelli per una scarica di sassi. A Tartaglione e a Crispo fu dedicato il nostro rifugetto, appunto il Tartaglione Crispo.

L'Angelo Villa che aveva partecipato a quella spedizione, e che era stato mio allievo alla Parravicini, è lo stesso "Angiolino" dello spigolo Nord del Badile, e Giuseppe De Capitani è quello che aveva litigato col vigile a Morbegno.

Permettemi di ricordarne qui almeno uno:




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Messaggioda crodaiolo » lun ago 24, 2009 15:13 pm

brividi... illuminanti :|
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Messaggioda danielegr » sab ago 29, 2009 9:46 am

climbalone ha scritto:
Daniele, non ti ho mai sentito nominare le ferrate (ops! si può dire ferrata su questo forum?). Credo ce ne fossero già, anzi un buon numero, anche se forse soprattutto in Dolomiti. Non venivano mai usate per facilitare i primi approcci alla montagna? Per me per esempio sono state essenziali per imparare a vincere la paura del vuoto.


Non mi ricordo di nessuna ferrata in quel periodo. C'erano sì delle corde fisse e magari qualche scala o gradino in ferro, come nel Caminetto Pagani in Grigna, c'è una foto qui guarda verso la fine della discussione. Probabilmente ce ne saranno state in Dolomiti (mi frulla per la testa un qualcosa dalle parti del Brenta, ma non ricordo esattamente dove).
In sostanza era diversa la mentalità: si ammettevano alcune facilitazioni tipo una corda fissa (mi viene in mente adesso: c'era una scaletta oppure dei gradini cementati sul Sentiero delle Bocchette in Brenta) che avevano lo scopo di facilitare un passaggio, non il raggiungimento di una cima. Del resto non esistevano nemmeno i punti di sosta attrezzati: terminato il tiro o si piantava un chiodo che poi sarebbe stato recuperato dal secondo, oppure si utilizzava uno spuntone attorno al quale si arrotolava un cordino o, più spesso, la stessa corda di arrampicata alla quale veniva fatto un cappio. Si trovavano, peraltro, i chiodi per la discesa a corda doppia, chiodi che spesso suscitavano elle discussioni: "dobbiamo fidarci? mi sembra un po' arruginito, io ne pianterei un altro"; "già, e poi non lo recuperiamo più, se ha tenuto fino ad adesso, terrà ancora per un po'... speriamo "
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Messaggioda danielegr » lun ago 31, 2009 13:53 pm

Il Cervino - Prima parte
Una delle mie ultime salite fu il Cervino, nel 1961. Con Tiziano N. avevamo deciso di fare le ferie nel gruppo del Bianco. Programma ambiziosissimo, troppo ambizioso al punto che non siamo riusciti a realizzarlo. L'intenzione era di ?fare? il Cervino, poi spostarci in val di Ferret e tentare la Cresta des Hirondelles sulle Grandes Jorasses.
Speravamo anche di poter tentare l'Aiguille Noire de Peuterey, anche se ci rendevamo conto che ci voleva una buona dose di fortuna per riuscire a fare tutto.
Ci voleva anche una buona dose di fortuna solo per arrivarci: infatti avevamo deciso di andare con la moto di Tiziano, mi pare fosse una 500 Saturno Sport, sebbene io non fossi molto abituato a viaggiare sul sellino posteriore e avessi timidamente tentato di proporre la mia Vespa. Naturalmente la mia proposta venne sdegnosamente rifiutata e partimmo baldanzosi con quella specie di mostro a due ruote. Tiziano poi aveva una particolarità: passare da fermo a 100 Kmh in due secondi, o almeno così mi pareva.
E, in più, una volta raggiunti i 100 Kmh voleva toccare i 120, poi i 150 e così via...
Arrivato, con il Daniele più morto che vivo, a Cervinia partiamo verso l rifugio Duca degli Abruzzi ? circa 2800 metri - dove pranziamo e partiamo verso il bivacco Amedeo di Savoia a 3840 metri. Qui nasce un problema: malgrado fossi abituato all'altitudine, io soffrivo di mal di montagna: intorno ai 3200-3500 metri andavo in crisi, mal di testa, vomito, spossatezza: i classici sintomi del mal di montagna.
Rinunciare al Cervino per così poco? Non sia mai!! E allora l'unica cura che conoscevo era il digiuno. Quindi alla sera niente cena, al mattino niente colazione... E poi, niente pranzo...
Siamo comunque stati tra i primi ad arrivare al bivacco, cosa che ci ha permesso di riuscire a trovare posto sul tavolato. Ho un bellissimo ricordo di quella salita, mai difficile. Solo il tratto della Cheminèe presentava delle difficoltà, ma con la corda fissa si passava facilmente. Ricordo di aver rivolto un reverente pensiero ai primi salitori di quel tratto ( Whymper e Carrel ) che, un secolo prima, dovevano aver faticato mica poco a superare quel punto. Pensiamo, Tiziano e io, di poterci sistemare comodamente, di non avere troppa compagnia, ma evidentemente ci eravamo dimenticati di guardare il calendario... era Ferragosto!!

Il seguito fra qualche giorno. La foto che segue non è un gran che, troppo piccola ma non potevo fare diversamente. In primo piano Tiziano, dietro io e il bivacco.

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Messaggioda danielegr » mer set 02, 2009 10:02 am

Seconda parte:

Arrivano cordate su cordate, con o senza guide, e ancora altre cordate (sono continuate ad arrivare fino a notte). Il bivacco era pieno gremito, noi avevamo il posto sul tavolato con i materassini insieme ad alcuni altri, ma la maggior parte si è sistemata alla bell'e meglio sul pavimento, che a quel punto non presentava più un centimetro libero.
Sorge un problema: io, anche quando avevo vent'anni, dovevo (e lo sottolineo: dovevo) alzarmi alla notte per far pipì. Come fare con tutta quella gente sul pavimento e senza luce? C'è poco da fare però, la pipì è come la pazienza, quando scappa scappa... l'unica è avanzare cautamente cercando di evitare almeno le facce, sì, sì, sì, sembra facile...
C'è stata una sollevazione generale contro di me... volevano buttarmi di sotto direttamente sull'Oriondè, tutte le guide e gli alpinisti coalizzati contro un povero diavolo che, in fondo, voleva solo fare pipì fuori dal bivacco... Meno male che alla fine hanno avuto pietà e si sono limitati a ingiurie, contumelie, minacce di feroci rappresaglie, apprezzamenti sulla moralità dei miei ascendenti dal lato materno...
Come che sia, arriva la mattina e visti i precedenti non abbiamo il coraggio di passare davanti alle altre cordate, che mi guardano ancora in cagnesco... e quindi partiamo per ultimi. Almeno qualcuno ci indicherà la strada.
Il Cervino non è una salita difficile: già allora c'erano corde fisse e aiuti di vario genere. Non mi ricordo nessun passaggio che fosse particolarmente impegnativo. Quindi ampiamente alla portata (naturalmente se fatto nelle condizioni ottimali) di un alpinista ben allenato. La salita è senza particolare storia, e così la discesa, il tempo tiene e noi siamo ampiamente all'altezza delle difficoltà. Discesa veloce fino alla moto, e giù fino a Chatillon, naturalmente a tutto gas malgrado la strada di montagna. Avrei volentieri strozzato Tiziano per questo, ma farlo durante la marcia era pericoloso... e poi avrei dovuto staccare le mani dalle maniglie della moto e.. non era facile da come le tenevo avvinghiate...
E io, sebbene oramai fossimo in pianura, non mi fido ancora a mangiare e quindi salto anche la cena. A metà notte però il mio stomaco si ribella: fame! fame! fame!! Mi alzo, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare Tiziano e incomincio a frugare negli zaini in cerca di qualsiasi cosa fosse commestibile. Però un po' di rumore lo faccio lo stesso, Tiziano si sveglia e io per la seconda notte consecutiva rischio di essere buttato fuori dalla finestra... Però alla fine trovo qualcosina (mi pare un pezzo di salamino nello zaino di Tiziano). Posso tornare a dormire, finalmente!
Poi ci siamo spostati in Val di Ferret, con l'intenzione come ho già detto di fare grandi cose, ma il tempo non è s'accordo: pioggia, tempo instabile che non consigliava certo salite in alta quota. E le previsioni dicevano che sarebbe continuato così per diversi giorni. Dopo poco quindi decidiamo: si torna a casa, sarà per un'altra volta. Quindi ancora sulla moto, ancora a tutto gas, direzione Milano. Ma a questo punto la moto si ribella: più o meno all'altezza di Novara una bella grippatura e fine del viaggio. Siamo tornati, se ricordo bene, chiedendo un passaggio ad un pullman di gitanti, dopo aver lasciato la moto dal meccanico.
Però almeno il Cervino eravamo riusciti a farlo!!
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Messaggioda Donatello » mer set 02, 2009 20:10 pm

Bellissimi racconti, nelle mie saltuarie visite, mi era sfuggito questo topic.

Sono un parraviciniano pure io ;)
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Messaggioda kala » lun set 07, 2009 10:40 am

Donatello ha scritto:Bellissimi racconti, nelle mie saltuarie visite, mi era sfuggito questo topic.


Troppi grattacapi con altri forum? :roll: :mrgreen:

---

Son sempre qui a sentire, Daniele, grazie per i tuoi racconti! ;)

Se stringi il pugno la tua mano è vuota: solo con la mano aperta puoi possedere tutto.
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Messaggioda danielegr » lun set 07, 2009 12:45 pm

Proseguo con i miei ricordi...

La mancata salita alle Grandes Jorasses non è naturalmente l'unico dei miei rimpianti: altre cime, altre vie le ho corteggiate a lungo senza riuscire a conquistarle. Potrei fare un elenco lungo una pagina intera, ma non mi sembra il caso. Citerò solo lo Spigolo Parravicini, che avevo in programma ma che non mi sentivo ancora in grado di affrontare e lo spigolo Nord del Crozzon del Brenta.
Quest'ultimo soprattutto era una delle mie fissazioni: dalle descrizioni che avevo letto sapevo che era una salita molto lunga, non difficile, che anche la discesa attraverso Cima Tosa era lunga, che c'era un bivacco non ricordo più se sul Crozzon o su Cima Tosa che avrebbe potuto essere un punto di sosta se ci si fosse attardati troppo lungo la salita. Ogni volta che si saliva al Brentei guardavo il Crozzon e pensavo: oggi non è possibile, abbiamo un altro programma, ma prima o poi...
In effetti volevo riuscire a ?evadere? dall'ufficio abbastanza presto al venerdì pomeriggio, in modo da arrivare in serata al rifugio, e avere quindi un ampio margine di tempo per la salita e soprattutto per la discesa, in modo da poter pernottare al bivacco sul Crozzon se fosse stato necessario.
E due volte ci siamo riusciti, in una c'erano anche Guido della Torre e Guido Giommi. Tutte e due le volte arrivati al rifugio il tempo peggiorò, e al mattino le condizioni erano tali da sconsigliare una salita così lunga. Una di quelle due volte, tanto per fare qualcosa, individuammo l'attacco e salimmo fino ad un cengione, seguendo il quale si arrivò ad un colletto dal quale poi si scendeva facilmente fino al Brentei. (la dizione esatta sarebbe stata Rifugio Maria e Alberto ai Brentei, ma per tutti noi era solo ?il Brentei?).
Un'altra volta però le cose andarono diversamente: partiti al venerdì, al mattino del sabato troviamo tempo ottimo e sicuro e allora VIAAAAAA... C'è una cordata che attacca immediatamente prima di noi: sono due ragazzi che conosciamo di vista, probabilmente ci siamo già incontrati in Grigna ma non ricordiamo i loro nomi. Beh, non c'è problema, due cordate da due non si danno fastidio a vicenda e finalmente si parte!!
I primi tiri sono molto facili fino ad arrivare ad una cengia dalla quale si diparte un camino. La cordata davanti a noi naturalmente attacca per prima e io aspetto che il capocordata finisca il tiro per partire a mia volta, un paio di metri sotto al secondo.
Ma non è così: il capocordata ?vola? nel camino. Per fortuna,rimbalzando un po' fra le pareti del camino non si fa troppo male, però una caviglia ha subito una distorsione e chiaramente non solo non può proseguire, ma nemmeno tornare al rifugio con i suoi mezzi. Non c'è nemmeno da immaginare un'altra ipotesi: è chiaro che abbandoniamo la salita e aiutiamo l'infortunato e il suo compagno a tornare al Brentei. So per certo che si è rimesso in forma in fretta: qualche settimana dopo l'ho rivisto che zompettava allegramente in Grigna. Chissà come si chiamava.
E' stata l'ultima volta che sono andato nella zona del Crozzon: quella salita, a cinquant'anni di distanza mi sta ancora sul gozzo...
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Messaggioda danielegr » ven set 11, 2009 9:16 am

No, oggi nessun resoconto di salite fatte in periodi preistorici. Piuttosto qualche notiziola su curiosità varie. La prima: ecco la mia Vespa pronta per la partenza per un periodo di ferie.

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Però a rivedere la foto incominciano a venire i dubbi: la Vespa era davvero la mia oppure quella di Franco (amico con il quale feci alcune salite prima di iscrivermi al Cai e alla Parravicini, quindi direi 1955 o 1956). Dai segni sul cofano motore sembrerebbe la mia ? Franco non avrebbe mai tollerato di avere una Vespa con quei segnacci... - però io quelle borse sul paragambe non le ho mai avute, forse me le aveva prestate lo stesso Franco? ecchilosà... Comunque era una Vespa, stracarica, pronta per la partenza.
Il passeggero si caricava sul groppone lo zaino con le picche e riusciva ad appoggiarlo sulla ruota di scorta, altrimenti nelle tre-quattro ore del viaggio difficilmente sarebbe riuscito a farcela.
Il guidatore, cioè io, doveva tenere le gambe in maniera abbastanza innaturale, visto il poco spazio lasciato libero dallo zaino appoggiato sulla pedana. In pratica la punta del piede destro sporgeva dalla carenatura e si frenava con il tacco. Sembra complicato, ma non lo era poi troppo, la frenata era abbastanza sicura: il problema era semmai che la punta del piede destro, quella che sporgeva dalla carenatura, era soggetta alla pioggia, al freddo e alla possibilità di urti contro qualche ostacolo. D'altronde in caso di pioggia con la Vespa non era sperabile venirne fuori asciutti; ci si copriva alla bell'e meglio con degli strani impermeabili in acetato, che puzzavano in maniera oscena, e magari con un telo in polietilene i cui brandelli si vedono in questa foto.

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Se la memoria non mi inganna eravamo in Valtellina, probabilmente al ritorno da una gita in Val Masino o in Val Malenco e ci eravamo riparati un momento da qualche parte per tirare il fiato in attesa di ributtarci sotto l'acqua.
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Messaggioda danielegr » lun set 21, 2009 10:29 am

Una delle mie prime gite (non trovo un termine più indicato) è stata sul ghiacciaio del Ventina. Quando? sarà stato il 1955 o 1956: ero alle prime armi, non avevo ancora frequentato la Parravicini e avevo idee molto vaghe sulla montagna, sui suoi pericoli, su tutto quello che insomma fa parte del bagaglio di un alpinista appena appena decente. Partiamo, io e un mio amico, naturalmente sulla Vespa. Era più o meno la metà di Giugno. Baldanzosamente arriviamo a Chiareggio.
No, mi correggo, non era la Vespa: era ancora la Lambretta, quella che ogni 30 chilometri si fermava perché la candela si era sporcata, quindi sarà stato il 1955. Ricordo che era la Lambretta perchè quel modello aveva, tra gli altri, un grosso problema: era raffreddata solo ad aria di corsa quindi in salita e sovraccarica come era nostra usanza surriscaldava e dava effetti di autocombustione con successivo spegnimento del motore. Quindi bisognava fermarsi, togliere la candela che tanto una pulitina non le avrebbe fatto male e aspettare pazientemente che il motore si raffreddasse. No so come sia adesso la strada per Chiareggio: allora era poco più che una mulattiera, naturalmente non asfaltata, molto ripida che la mia Lambretta riusciva a percorrere a non più di 10-15 Kmh. Quindi nessuna meraviglia che le fermate per far raffreddare il motore siano state almeno due. Comunque, tra una fermata e l'altra riusciamo ad arrivare a Chiareggio e chiediamo informazioni. Incoscienti come eravamo, non avevamo nessuna informazione su quello che si sarebbe potuto fare in zona, come attrezzatura eravamo a livelli trogloditici: non ricordo se avevamo almeno la corda, ma certamente non avevamo piccozze, i miei scarponi erano un vecchio paio di scarponi da sci, a punta quadrata, che avevo comperato usati alla fiera di Sinigaglia (i milanesi capiscono cosa voglio dire) roba da inorridire... Non parliamo poi delle capacità alpinistiche che erano a livello adeguato all'attrezzatura.
Qualcuno, visto che tipi eravamo, deve aver pensato: tanto questi dopo mezz'ora non ce la fanno più e torneranno indietro, diciamo loro di andare un po' in su, poi capiranno da soli che non è il caso di proseguire. Ci venne consigliata la Punta Kennedy, dicendoci che avremmo potuto dormire al bivacco Taveggia.
E allora via! Il sentiero per il Rifugio Porro, chiuso, poi vediamo il ghiacciaio del Ventina che in quegli anni arrivava a non grande distanza dal Porro e incominciamo salire. Il ghiacciaio aveva una lingua abbastanza diritta, in fondo alla quale c'era il Pizzo Cassandra e altre vette, poi girava a destra e su un piccolo sperone avrebbe dovuto esserci il bivacco. C'era, sicuramente, però noi per fortuna non l'abbiamo visto. Dico ?per fortuna? perché se l'avessimo visto avremmo probabilmente tentato il giorno dopo la Punta Kennedy che non è particolarmente difficile, l'ho fatta parecchi anni dopo, ma che non era certamente alla portata della nostra quasi inesistente preparazione.
Torniamo quindi al Porro, era già piuttosto tardi, quasi buio: ma era chiuso. Che facciamo? Scendere a Chiareggio non ci andava molto: proviamo a girare un po' intorno al rifugio, magari troviamo un modo per entrare. E infatti lo troviamo: non ricordo esattamente come, probabilmente una porta posteriore chiusa male e entriamo. Da soli, padroni del rifugio ci buttiamo a dormire.
E qui incominciano i miei guai: in Giugno su un ghiacciaio con neve caduta da non troppo tempo il sole picchia come non mai e il riverbero è micidiale. Io però non lo sapevo e non mi ero protetto adeguatamente. Probabilmente avevo un paio di occhiali da sole, ma non mi ero messo né creme né altro. Quindi una bella scottatura in faccia me la sono presa, altroché se me la sono presa... Mi bruciava tutto: ero rosso come un peperone e non avevo la minima idea di come curarmi. Il mattino dopo siamo scesi di corsa a Sondrio, mentre io cercavo di coprirmi la faccia il più possibile ? sembravo un rapinatore mascherato ? e abbiamo cercato una camera. Mentre il mio amico andava un po' in giro per Sondrio io mi sono chiuso nella camera, al buio, e mi sono messo in faccia l'unica cosa che avevamo per curare le scottature, la Vegetallumina.
Quel prodotto aveva davvero una notevole efficacia curativa, infatti in un paio di giorni mi sono rimesso in sesto, ma aveva anche un grosso problema: formava delle chiazze di materia grigiastra e non si riusciva a toglierle se non sfregando vigorosamente: proprio la cosa più indicata su una pelle ustionata dal sole... Che male ho avuto!!
Però. come ho detto, in un paio di giorni mi sono rimesso in sesto e abbiamo potuto proseguire le nostre ferie. Se non ricordo male, ma potrei sbagliarmi, siamo andati alla Capanna Pizzini, nel gruppo del Cevedale. Alla Pizzini era aperta l'invernale e quindi non abbiamo avuto grossi problemi, ma non abbiamo fatto niente di speciale, anche perché le poche ferie che avevo allora erano quasi finite.
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Messaggioda danielegr » dom set 27, 2009 17:56 pm

Non mi viene in mente niente di particolare da raccontare, oggi. Mi limiterò ad una foto che mi è ricapitata in mano qualche giorno fa mettendo in ordine un cassetto:
Immagine.
Direi che era la premiazione della scuola Parravicini, nel 1960 o 1961, intorno alla metà di Giugno. Eravamo al rifugio Tartaglione Crispo, che si vede dietro a noi e si direbbe che di neve intorno ce n'era in abbondanza. Ma chi sono quei quattro strani figuri che si sono messi in posa?
Allora: il primo a sinistra è l'Angiolino, quello dello Spigolo Nord del Badile e che ha partecipato alla spedizione della Sezione di Milano del CAI in Groenlandia. Poi ci sono io e alla mia sinistra un altro mio allievo (che vergogna, non ricordo il nome: mi pare Roberto T. ma non ne sono certo).
Quello sul quale io appoggio il mio piedone con relativo scarpone è Ezio. Oggi è un seriosissimo cardiochirurgo, mi pare a Monza.
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Messaggioda danielegr » ven ott 02, 2009 15:15 pm

E vai con un'altra foto dei miei tempi eroici: questo dovrebbe essere del 1957 a Madonna di Campiglio. Me l'ha mandata un amico, Alfredo, del quale ho già raccontato qualcosa quie qui

Ecco la foto:

Immagine

Siamo Alfredo, io e quello con la faccia cancellata è un altro amico al quale non ho potuto chiedere l'autorizzazione a pubblicare la foto. E' lo stesso che mi ha, per così dire, "iniziato" allo sci: ne ho parlato qui

Vorrei far notare, oltre alle antidiluviane automobili sullo sfondo, mi pare di riconoscere una 1100 R e probabilmente una 1400, il nostro abbigliamento ed equipaggiamento. Innanzitutto gli sci: intorno ai 210 cm per me che ero il più basso, Alfredo avrà avuto almeno i 215. Gli attacchi erano certamente i Kandahar, cioè attacchi che bloccavano molto bene il piede allo sci, però in caso di caduta rimanevano bloccati con grave rischio di fratture. Erano formati da una ganascia fissa, nella quale veniva incastrata la punta dello scarpone che poi era tenuto bloccato da un cavetto in metallo. Peccato che in quella foto non si vedano bene né gli attacchi che ho cercato di descrivere sommariamente né le lamine.
Poi i bastoncini: in bambù: sembrerebbero molto fragili, però io non ricordo di aver mai rotto un bastoncino, malgrado le numerose cadute. Erano più resistenti di quello che sembrava.
Poi l'abbigliamento: ma di quello ne parliamo domani.
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Messaggioda danielegr » dom ott 04, 2009 12:33 pm

Ho corretto un paio di link che funzionavano male, adesso mi sembrano a posto. Dicevamo dell'abbigliamento:
tutti e tre avevamo in testa dei cappellini di lana, con o senza ponpon. Niente casco ovviamente. Vi prego di ammirare i miei occhialoni... Erano molto simili a quelli che si usavano con le moto. Erano formati da una intelaiatura, mi pare in gomma o forse in plastica, e da alcune "lenti" intercambiabili, cioè delle protezioni in plexiglas, una bianca, una gialla (si sarebbe dovuto usare in caso di nebbia: ho provato qualche volta ma non ci vedevo un tubo) e uno marrone. Il difetto di quelle protezioni era la loro estrema vulnerabilità alle scalfitture: si rigavano anche a tenerli nello zaino e comunque la curvatura per incastrarle nell'intelaiatura alterava in maniera drastica la visibilità laterale. Quindi era un continuo togliersi gli occhiali, che comunque si appannavano che era una bellezza, pulirli, andare avanti un pezzetto a occhi semichiusi, rimettersi gli occhiali e avanti così. Alfredo aveva anche lui un paio di occhialoni simili, con la visiera bianca;
I guanti: Alfredo aveva delle moffole, credo che si usino ancora adesso, abbastanza comode, però non garantivano l'assoluta impermeabilità. Io usavo dei guanti in lana: era una lana grassa, che avrebbe dovuto essere impermeabile e infatti un po' lo era, però dopo una giornata di sci era fradicia. Una volta bagnata manteneva lo stesso un po' di calore, ma diventava molto facile che si bucassero. Per mia madre era un continuo lavoro di rammendo...
le giacche a vento: la mia era una giacca di tipo ?olimpionico?, o almeno così la chiamavamo noi. Molto somigliante, direi, a un K.Way di oggi, ottima contro il vento, buona contro l'acqua, assolutamente insufficiente per mantenere il calore, infatti sotto ci si imbottiva di maglioni. Il ragazzo alla mia sinistra usava una giacca con il collo in pelo, che mi pare fosse anche imbottita. Non so quanto il collo in pelo fosse funzionale: a seguito di una caduta o per il nevischio portato dal vento diventava tutta una serie di ghiaccioli.
I pantaloni: nella foto non si vedono bene: saranno stati dei pantaloni semi-impermeabili come erano allora i pantaloni da sci. Sono però sicuro che qualche volta, soprattutto all'inizio, sono andato a sciare con dei pantaloni di velluto marrone alla zuava, probabilmente gli stessi che usavo per arrampicare. Era divertente, in caso di caduta di culo, vedere la striscia marrone che rimaneva sulla neve...
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Messaggioda n!z4th » dom ott 04, 2009 12:54 pm

Perdomani daniele,

Ma perchè non scrivi questi racconti in un bel libro?

Sarei ben felice di spendere qualche euro per comprartelo :D

Sai, i libri rimangono sono ben più durevoli dei bit.

:D
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Messaggioda danielegr » dom ott 04, 2009 13:35 pm

n!z4th ha scritto:Perdomani daniele,

Ma perchè non scrivi questi racconti in un bel libro?

Sarei ben felice di spendere qualche euro per comprartelo :D

Sai, i libri rimangono sono ben più durevoli dei bit.

:D


Pigrizia? Sapere che lo incomincerei e non lo finirei mai? sindrome della pagina bianca? Un po' di tutto, scegli tu...
Ah, se però qualcuno si prendesse la briga di raccogliere tutto quello che ho scritto qui, ordinarlo, ripulirlo un po' e pubblicarlo... avrebbe la mia benedizione. I diritti d'autore se li tenga pure lui.
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Messaggioda n!z4th » dom ott 04, 2009 21:02 pm

Un consiglio, che mi tirerà dietro le ire del forum.
Anzichè venire qui ogni tanto a scrivere 10 righe, scrivile su un foglio.

:D
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Messaggioda danielegr » gio ott 08, 2009 11:34 am

Un'aggiunta a un post precedente: avevo accennato alle lamine degli sci, ma poi non avevo continuato. E' pacifico (oggi) che le lamine di uno sci soprattutto se parliamo di sci da discesa, siano solidali con lo sci stesso, che siano ben affilate e via dicendo. Ai miei tempi le lamine consistevano in listelli di metallo che venivano AVVITATI al legno dello sci (gli sci erano tutti di legno: i primi in metallo che ho visto erano gli Head, che non si potevano comprare perchè costavano circa due miei stipendi) e poste parallelamente alla soletta dello sci stesso. La soletta poi spesso non esisteva proprio, era un fondo di legno sul quale era passata una vernice (i miei primi sci avevano la vernice rossa sotto). La sciolina era praticamente indispensabile, io ne tenevo in tasca un panetto color argento: pare che fosse adatta a quasi tutti i tipi di neve. Quando poi sono usciti i primi sci con una soletta nera, credo che fosse un particolare tipo di plastica, le cose sono notevolmente migliorate, nel senso che si poteva anche fare a meno del panetto di sciolina in tasca (con gioia di mia mamma). Naturalmente il toccare qualche sasso portava danni notevoli alle lamine stesse: le vitine che le tenevano allo sci incominciavano a ballare e nel giro di poco tempo, aiutate dall'umidità che penetrava nel legno le viti si perdevano, con esse la lamina e, una volta che era partita una lamina si perdevano in gran fretta tutte quelle che erano avvitate dietro a quella persa. Una curiosità: uno dei primi sci che ho visto, ma che non ho usato, aveva le lamine in AVORIO!! Certamente su ghiaccio non dovevano essere un gran che.
Cosa succedeva quando si perdeva una lamina che direi sarà stata lunga un quindicina di centimetri? Per un po' si poteva sciare lo stesso: diciamo che almeno riuscivi a ?sfruttare il giornaliero?. Poi dipendeva dalla neve: se era troppo dura o ghiacciata non era facile, ma di solito la neve era piuttosto morbida: il ghiaccio era l'eccezione. In effetti, allora, la neve delle piste non veniva battuta con il ?gatto delle nevi? che è entrato in uso comune diversi anni più tardi, e meno che meno veniva fatta ghiacciare artificialmente per conservarla più a lungo: erano i maestri di sci, magari accompagnati da qualche volonteroso valligiano, che risalivano ?a scaletta? la pista e facevano una prima battitura. Poi scendevano a spazzaneve e completavano il lavoro.
Credo, ma non ne sono certo, che i volonterosi valligiani di cui sopra venissero compensati con un abbonamento per i mezzi di risalita.
Un'altra curiosità: gli sci, quelli in legno naturalmente, quando non si usavano dovevano essere legati insieme per la punta e la coda, usavamo dei cinturini in gomma, e in mezzo si inseriva uno spessore, anche lui di legno, per mantenere la giusta curvatura. Poi andavano appoggiati a terra, assolutamente in verticale e con le punte in basso.
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Messaggioda danielegr » lun ott 12, 2009 11:11 am

Volevo chiacchierare un po' sui gradi che si usavano una volta e parlare dei gradi per indicare la difficoltà su roccia: sento parlare di 8a, 9b, mi aspetto di trovare, prima o poi, qualche indicazione che utilizzi i segni di radice quadrata oppure di integrale doppio...
Ai miei tempi la classificazione era:
1° grado: dove l'arrampicatore provetto e ben allenato aveva la necessità di usare anche le mani per la progressione;
2° facile e dal 3° già si incominciava a parlare di ?difficile?. Il 4° e il 5° grado erano caratterizzati da ?molto difficile? e ?oltremodo difficile?. Il 6° grado era considerato l'estremo limite delle possibilità umane. Ogni grado si sarebbe potuto idealmente suddividere in tre sottogradi, inferiore, medio e superiore ma questa classificazione di solito era in uso solo per i gradi più alti il 5° e il 6°, raramente per il 4°. Chiaramente questa classificazione si prestava a diverse interpretazioni ed era molto influenzata dalle condizioni fisiche ed emotive dell'alpinista. Emilio Comici, ad esempio, aprì la via sulla Nord della Grande di Lavaredo unitamente ai fratelli Dimai e, dopo aver superato la parte più difficile ebbe una specie di crollo emotivo: il traverso sopra lo strapiombo non riuscì a farlo e cedette il comando della cordata ad uno dei fratelli Dimai, mi pare Antonio. Successivamente ripeté la via, in solitaria, e nella relazione disse di essersi molto meravigliato della facilità del traverso che ?in effetti non superava il quarto grado?.
Ma questo sistema di classificazione delle difficoltà venne in uso più o meno alla metà degli anni '20. Successivamente venne adattato, corretto e ampliato. E prima come facevano? Non usavano i gradi: si paragonavano le salite a alcune classiche, che si ritenevano conosciute dal maggior numero di alpinisti, in maniera da dare quindi, un giudizio non solo sulla pura difficoltà tecnica, ma anche sul tipo di salita. E' evidente che un quarto grado in Dolomite sia diverso da un altro quarto grado su granito, se non altro perché la tecnica, l'esposizione, la qualità della roccia sono ben diverse. Quindi dicevano di una determinata via, per esempio, ?più facile del Campanile Basso?.
Questo lasciava intendere che si trattava di una via in Dolomite, piuttosto esposta, su roccia solida, con difficoltà abbordabili. Allo stesso modo dichiarare una via ?poco più difficile dello spigolo Nord del Badile? poteva far pensare ad una via lunga, su granito, con esposizione contenuta e via dicendo.
Volevo intanto presentarvi colui che, almeno secondo me, ha aperto le porte del settimo grado, già negli anni '50. Ecco George Livanos detto "Le Grec", sostenitore dell'artificiale. Una sua frase? Eccola: "meglio un chiodo in più che un uomo in meno, soprattutto se quell'uomo sono io"

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