Tra le molte cose di montagna che ho letto, per me questo è una delle cose più belle che mai siano state scritte.
Credo che anche i non piemontesi abbiano sentito parlare della palestra di roccia dov'è la Rocca Sbarua e naturalmente di Primo Levi...

(mica ci saranno problemi di diritti riservati? si potrà fare? boh...)
Va bè prendetelo come regalo di Pasqua....

"Sbarùa è deverbio da «sbarùé», che significa «spaurare»; lo Sbarùa è un prisma di granito che sporge di un centinaio di metri da una modesta collina irta di rovi e di bosco ceduo: come il Veglio di Creta, è spaccato dalla base alla cima da una fenditura che si fa salendo via via più stretta, fino a costringere lo scalatore ad uscire in parete, dove, appunto, si spaura, e dove esisteva allora un singolo chiodo, lasciato caritatevolmente dal fratello di Sandro.
Erano quelli curiosi luoghi, frequentati da poche decine di affezionati del nostro stampo, che Sandro conosceva tutti di nome o di vista: si saliva, non senza problemi tecnici, in mezzo ad un noioso ronzio di mosche bovine attirate dal nostro sudore, arrampicandosi per pareti di buona pietra salda interrotte da ripiani erbosi dove crescevano felci e fragole, o in autunno more; non di rado, si sfruttavano come appigli i tronchi di alberelli stenti, radicati nelle fenditure: e si arrivava dopo qualche ora alla cima, che non era una cima affatto ma per lo più un placido pascolo, dove le vacche ci guardavano con occhi indifferenti. Si scendeva poi a rompicollo, in pochi minuti, per sentieri cosparsi di sterco vaccino antico e recente, a recuperare le biciclette.
Altre volte erano imprese più impegnative: mai tranquille evasioni, poiché Sandro diceva che, per vedere i panorami, avremmo avuto tempo a quarant?anni. «Dùma, neh?» mi disse un giorno, a febbraio: nel suo linguaggio, voleva dire che, essendo buono il tempo, avremmo potuto partire alla sera per l?ascensione invernale del Dente di M., che da qualche settimana era in programma.
Dormimmo in una locanda e partimmo il giorno dopo, non troppo presto, ad un?ora imprecisata (Sandro non amava gli orologi: ne sentiva il tacito continuo ammonimento come un?intrusione arbitraria); ci cacciammo baldanzosamente nella nebbia, e ne uscimmo verso la una, in uno splendido sole, e sul crestone di una cima che non era quella buona.
Allora io dissi che avremmo potuto ridiscendere di un centinaio di metri, traversare a mezza costa e risalire per il costone successivo: o meglio ancora, già che c?eravamo, continuare a salire ed accontentarci della cima sbagliata, che tanto era solo quaranta metri più bassa dell?altra; ma Sandro, con splendida malafede, disse in poche sillabe dense che stava bene per la mia ultima proposta, ma che poi, «per la facile cresta nord-ovest» (era questa una sarcastica citazione dalla già nominata guida del CAI) avremmo raggiunto ugualmente, in mezz?ora, il Dente di M.; e che non valeva la pena di avere vent?anni se non ci si permetteva il lusso di sbagliare strada.
La facile cresta doveva essere facile, anzi elementare, d?estate, ma noi la trovammo in condizioni scomode. La roccia era bagnata sul versante al sole, e coperta di vetrato nero su quello in ombra; fra uno spuntone e l?altro c?erano sacche di neve fradicia dove si affondava fino alla cintura. Arrivammo in cima alle cinque, io tirando l?ala da far pena, Sandro in preda ad un?ilarità sinistra che io trovavo irritante.
? E per scendere?
- Per scendere vedremo, ? rispose; ed aggiunse misteriosamente: ? il peggio che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell?orso
?. Bene, la gustammo, la carne dell?orso, nel corso di quella notte, che trovammo lunga. Scendemmo in due ore, malamente aiutati dalla corda, che era gelata: era diventato un maligno groviglio rigido che si agganciava a tutti gli spuntoni, e suonava sulla roccia come un cavo da teleferica.
Alle sette eravamo in riva a un laghetto ghiacciato, ed era buio. Mangiammo il poco che ci avanzava, costruimmo un futile muretto a secco dalla parte del vento e ci mettemmo a dormire per terra, serrati l?uno contro l?altro.
Era come se anche il tempo sì fosse congelato; ci alzavamo ogni tanto in piedi per riattivare la circolazione, ed era sempre la stessa ora; il vento soffiava sempre, c?era sempre uno spettro di luna, sempre allo stesso punto del cielo, e davanti alla luna una cavalcata fantastica di nuvole stracciate, sempre uguale. Ci eravamo tolte le scarpe, come descritto nei libri di Lammer cari a Sandro, e tenevamo i piedi nei sacchi; alla prima luce funerea, che pareva venire dalla neve e non dal cielo, ci levammo con le membra intormentite e gli occhi spiritati per la veglia, la fame e la durezza del giaciglio: e trovammo le scarpe talmente gelate che suonavano come campane, e per infilarle dovemmo covarle come fanno le galline.
Ma tornammo a valle coi nostri mezzi, e al locandiere, che ci chiedeva ridacchiando come ce la eravamo passata, e intanto sogguardava i nostri visi stralunati, rispondemmo sfrontatamente che avevamo fatto un?ottima gita, pagammo il conto e ce ne andammo con dignità.
Era questa, la carne dell?orso: ed ora, che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino. Perciò sono grato a Sandro per avermi messo coscientemente nei guai, in quella ed in altre imprese insensate solo in apparenza, e so con certezza che queste mi hanno servito più tardi.
Non hanno servito a lui, o non a lungo. Sandro era Sandro Delmastro, il primo caduto del Comando Militare Piemontese del Partito d?Azione. Dopo pochi mesi di tensione estrema, nell?aprile del 1944 fu catturato dai fascisti, non si arrese e tentò la fuga dalla Casa Littoria di Cuneo. Fu ucciso, con una scarica di mitra alla nuca, da un mostruoso carnefice-bambino, uno di quegli sciagurati sgherri di quindici anni che la repubblica di Salò aveva arruolato nei riformatori. Il suo corpo rimase a lungo abbandonato in mezzo al viale, perché i fascisti avevano vietato alla popolazione di dargli sepoltura.
Oggi so che è un?impresa senza speranza rivestire un uomo di parole, farlo rivivere in una pagina scritta: un uomo come Sandro in specie.
Non era uomo da raccontare né da fargli monumenti, lui che dei monumenti rideva: stava tutto nelle azioni, e, finite quelle, di lui non resta nulla; nulla se non parole, appunto.