Ragazzi, ho deciso di postare il racconto "Performance" dal mio futuro libro, oramai già sputtanato su internet
Però penso sia importante per capire il valore affettivo delle vie e di cosa stiamo parlando. Performance è stata la mia prima via, come ha detto Gulf, quindi inutile dire cosa rappresenti per me.
buona lettura
M.
Performance
Il tram spariva nella nebbia, il treno già attendeva in stazione. Nello scompartimento si accalcavano indistintamente sciatori e pendolari. In quegli anni ad avere lo zaino in spalla eravamo solo noi alpinisti. Non esistevano ancora i piles e lo zaino era un segno di distinzione inequivocabile. Lo portavamo fieri per le strade della città, sui tram, nell?ascensore come in funivia. La gente della città ci inveiva contro, temendosi di prendere una picozzata, per non parlare di quando i tram cittadini erano colmi e muoversi con lo zaino diventava davvero un?impresa.
Dopo mezz?ora scarsa di treno, appena il tempo di lasciarsi alle spalle la nebbia cittadina e intravedere il cielo limpido e il bianco delle montagne, scendevamo a Sant?Ambrogio. Poi a piedi sino ad entrare nell?enorme cono d?ombra della Sagra di San Michele, austero baluardo a difesa di una delle più antiche vie di comunicazione con la Francia.
Mi ero arrampicato su un masso di una decina di metri e mi ci ero seduto sulla cima a cavalcioni. Mi scorreva tra le mani una corda rossa da 9 mm che avevo trovato in soffitta. Era una vecchia corda che aveva giaciuto in fondo allo zaino di mio padre per molti e molti passi, altre volte era scivolata docile sulla neve bianca dei ghiacciai. Non aveva quasi mai visto la roccia, tanto meno era mai entrata in tensione... Quel giorno la corda mi passava intorno alla spalla quando Davide rimase appeso guardandomi con la faccia implorante: ebbi quasi paura che si spezzasse! D?altra parte non avevo mai piantato un chiodo e non sapevo come si facesse! Ma mio padre mi aveva comunque insegnato ad assicurare a spalla con il vecchio metodo degli alpinisti dei primi del novecento, naturale che usassi quello.
Davide era un quindicenne decisamente sovra-peso che abitava ad un isolato da casa mia. Mascella da ragazzo americano e aria da monello. Gli piaceva la velocità ed il rischio, in bicicletta e sugli sci scendeva a rotta di collo, ma l?arrampicata probabilmente non faceva per lui. Ma non arrampicavamo certo per realizzare una via per noi difficile, stavamo solo esplorando una dimensione sconosciuta. Arrampicare sembrava la cosa più ovvia da fare. Davide e suo fratello Paolo, ancora più piccolo di lui, mi seguivano come si segue un vecchio lupo di mare che salpa su una scassata bagnarola alla volta del mare aperto. E salpavamo anche se tirava vento di tempesta, in pulmann o in treno, appunto... La meta erano vette lontane, che quasi mai raggiungevamo. La pioggia e la neve rappresentavano l?imponderabile e crudele destino che ci infliggeva l?amaro calice della rinuncia, ma il più delle volte erano gli occhi di Davide che mi imploravano pietà a farmi desistere dall?andare avanti contro la furia degli elementi. Avevo l?inflessibilità del generale che vede morire ad uno a uno i suoi uomini per infine, solo, doversi arrendere al nemico. Paolo e Davide oggi finalmente ne possono ridere con spensieratezza, ma allora era una cosa maledettamente seria!
Dal giro del Monte Viso ed i suoi ripidi canali innevati, con tanto di racambolesche scivolate e situazioni tragicomiche, alle prime arrampicate il passo non era poi così lungo... Un martello di legno e due vecchi moschettoni in ferro, oltre che la corda rossa, era tutto quello che mi rimaneva di mio padre. Decisi di utilizzarlo al meglio.
La guida di Giancarlo Grassi mi aveva aperto un modo parallelo, fatto di paretine, blocchi e piccole cave di granito, di cui nemmeno sospettavo l?esistenza. Dopo le fredde pareti della Sagra di San Michele e l?adrenalina dei vecchi chiodi degli anni ?30, la suola di vibram che grattava il ruvido serpentino, avevamo infine comprato le nostre prime scarpette di arrampicata a suola liscia. Le avevamo provate sulle bianche Pareti di Marmo e sui loro scalini rovesci. Poi, finalmente, ci eravamo sentiti pronti per la Cava di Borgone e il suo granito, che ricordava lontanamente quello del Monte Bianco.
Tra una lezione e l?altra di storia dell?arte io e Livio, compagni di banco, sognavamo le pareti. Suo fratello Luigi aveva arrampicato e possedeva già da tempo un paio di scarpette EB, altre diavolerie come nut, i famosi blocchetti ad incastro, e quant?altro. Aveva anche vari chiodi e addirittura un piantaspit. Quando il virus dell?arrampicata si impossessò completamente di noi e la neve si sciolse senza che ci fossimo ricordati degli sci, riuscimmo a ripetere tutte le vie della cava. Ci guardammo un po? intorno e fu allora che qualcuno di noi provò a salire quella placca a sfoglie rovesce con la corda davanti. Era una sfida troppo grande per non essere colta... stare appicicati ad una placca spiovente e saponosa, era diventata improvvisamente la cosa più importante della giornata. Ci procurammo allora qualche placchetta e la piazzammo nei punti più critici, dato che non vi era modo di proteggere la via con i chiodi. Con il piantaspit facemmo a turno i buchi, poi vi avvitammo su delle vecchie placchette recuperate chissà da dove, perchè comprarle non era pensabile. Progettammo la linea nei minimi particolari, prima in placca e poi, nel secondo tiro, su un piccolo tetto, con movimenti strani e sbilancianti. Non ricordo nè chi per primo di noi la salì, nè quanto tempo dopo averla chiodata: non era certo questa la cosa importante, in quei giorni. Era nata la nostra prima via, che Livio volle chiamare ?Performance?. Il nome non mi piaceva affatto, non lo ritenevo adatto alla situazione. Nessuno di noi stava compiendo una performance sportiva, aver chiodato quella placca mai scalata sembrava la cosa più naturale che dovessimo fare... Ma forse, in una famiglia di artisti a tutto campo come era quella di Livio e Luigi, ?performance? stava ad indicare più un?opera d?arte che una prestazione sportiva. Dopo tanti anni...l?ho capito solo ora!