il Duca ha scritto:Però secondo me tutta sta riflessione viene comunque dopo, nel senso che è un tentativo successivo di dare un senso al proprio andare per monti.
A me capita che sto li a cercare di spiegare quello che secondo me è l'alpinismo, ma poi quando mi ritrovo in montagna, mi accorgo che quelle parole sono gravemente insufficienti (e peggio ancora quelle degli altri, Messner in testa). In questo senso continuo a sostenere che le grandi pagine dell'alpinismo sono date dalle salite, non dalle spiegazioni (cosa ovvia ma da ricordare secondo me!)
Secondo me invece è proprio il contrario.
Siamo sicuri che ci sia un senso? Voglio dire, non è che andare in montagna, se ci guardiamo allo specchio con onestà, non ha proprio alcun senso?
Siamo noi che attribuiamo valore alle cose, ma non è che a volte sbagliamo?
Per quel che ho capito io di Motti e dei suoi scritti, il fallito era colui che cercava di dare un senso alla sua vita attraverso la montagna.
Motti sosteneva che bisognava farsi un esame di autocoscienza, superare questa fase, capire che esisteva dell'altro, che salire la montagna poteva diventare un gioco, o che comunque non era che un hobby parallelo, era solo una questione di approccio mentale e che non c'era paragone con lo stare con la ragazza e gli amici, senza sentire il bisogno di salire pericolose cataste di piatti come il Cervino o croste di ghiaccio sospese come il Triolet e che, se proprio devi salire le montagne, sali quelle belle, solari, di bella roccia, dove non si rischia per il gusto di rischiare. Non fare dell'alpinismo la propria vita.
Puoi certamente anche salirti il Cervino e le Triolet, ma non tirartela, bardarti come un palombaro per salire più in alto degli altri è una tua scelta che non ti rende migliore. Non è quanti chiodi ho piantato o che altitudine ho raggiunto o se ho rischiato tanto o poco. La Cassin in Lavaredo mi ha raccontato di un alpinista con due palle così perchè su quei traversi mi veniva il mal di mare, ma di "Capocordata" o "50 anni di alpinismo" non mi ricordo una riga.
Quindi tra un Cassin, i cui libri non fanno che parlare di chiodi e di freddo, e un Motti, che, in un ambiente come quello dell'alpinismo conservatore italiano dell'epoca capisce che spostare senso e valore dalla vita vera ad un'attività inutile come l'alpinismo produce mostri, chi è il fallito?
Non so se ho ben interpretato la lezione Motti, non l'ho conosciuto di persona; è un peccato perché la persona la capisci soprattutto standoci accanto e interagendoci. Se poi si ha la fortuna di avere qualcuno che te la racconta senza strumentalizzazioni (e che magari mi spiegasse una volta per tutte la famosa scritta all'imbocco del vallone), hai un a chiave in più per entrare nel suo vissuto, in quello che ha portato, nel suo caso, a scrivere ciò che ha scritto e fare ciò che ha fatto. Non mi sento assolutamente di giudicare la persona e cosa ha fatto, mi piacerebbe semplicemente avere più strumenti di analisi, i più imparziali possibili. Per me la grandezza di Motti è stata nell'aver capito che è pieno di gente che anche davanti all'evidenza negherebbe di aver fatto dell'alpinismo un'attività totalizzante.
Fallito è chi si è pianificato già i fine settimana alla prima domenica del mese,
fallito è chi sta male quando è brutto tempo e non può andare sulla tal via,
fallito è chi si fa i selfie o le foto in diretta (al più in leggera differita) da mettere su facebook,
fallito è chi va in montagna per poter dire a tutti che è stato in cima al Bianco,
fallito è chi non vuole ammettere che la classica in Marmolada che è appena riuscito a salire ha uno o due tiri belli per il resto fa cagare,
fallito è chi preferisce seguire con fedeltà le imprese del climber del momento sul portale online piuttosto che andare a passeggiare col suo vecchio.
Fallito è chi cerca rivalsa (senso?) nell'alpinismo.
Se si è suicidato per non aver retto a tutto questo, beh, che dire? Ho appena finito Infinite Jest e a volte capisco perché DFW si sia suicidato e non mi sorprendo che la gente se ne sorprenda. Capire le persone è un'impresa, a volte basta saltare un paio di righe, o una smorfia, e non cogli più il disegno generale.
Forse se la tirava perchè vedeva lontano, come dice giudirel di Guerini, un peccato veniale se in cambio abbiamo i suoi scritti