Alle 9,30 raggiungo la cengia alla base del tratto chiave sopra l?ignoto! Mi siedo con la schiena poggiata alla parete per scoprire il passaggio che mi respingerà o che, chissà, mi vedrà vincitore, ma non riesco a scorgerlo: non vedo nessuno strapiombo pauroso, nessuna placca impossibile, non c?è più il mistero, è anche questa una parete, un pezzo di roccia come tutti gli altri. Non sento più in me quell?ansia, quel timore, quel nervosismo che provavo prima di giungere qui; mi sento calmo, stranamente calmo, decido di mangiare e di bere qualcosa?
Riparto, raggiungo il fondo del camino e su roccia viscida monto su un masso incastrato. È giunto il momento di autoassicurarmi. Pianto un chiodo, vi passo un cordino, ma ad un certo momento mi fermo; mi viene in mente quando quest?anno, da solo, sullo spigolo Deye-Peters mi ero assicurato sul tratto chiave; mi si era incastrata la corda ed ero dovuto ridiscendere in arrampicata libera a sbloccarla. Mi rimetto a tracolla il cordino, estraggo il chiodo e riparto. Ho fiducia in me stesso.
Traverso a sinistra su appigli minimi fino al centro della parete, dove trovo un chiodo; più sopra un secondo ed un terzo: sono di Cozzolino. Sento il sangue correre impazzito nelle vene. Anch?io sono arrivato dove è arrivato lui. Salgo sicuro fino al terzo chiodo e qui mi fermo: gli ultimi metri del passaggio sono strapiombanti e le fessure cieche e larghe; non si può chiodare. Frattanto anche gli slavi sono allo spiazzo ghiaioso; uno si accorge che le mie corde sono libere nel vuoto, senza assicurazione; passa la voce all?altro ed entrambi mi guardano con gli occhi sbarrati. Provo due volte il passaggio, quindi lo supero di slancio.
Ce l?ho fatta! Ho vinto il passaggio, ma non la via. Di questo sono ben cosciente. Non devo lasciarmi trascinare dall?entusiasmo. Due lunghezze oblique verso destra mi portano verso uno strapiombo compatto; mi alzo alcuni metri, ma all?altezza di questo mi ritrovo bloccato. Appigli ed appoggi sono piccoli ed arrotondati; spero che gli scarponi tengano perché con le mani riesco appena a vincere le leggi di gravità. Sono sotto tensione: non vi sono fessure per piantare chiodi, ed anche se vi fossero non potrei disimpegnare la mano. Mi rifiuto di pensare ad una possibile caduta; non devo cadere, a costo di aggrapparmi con i denti.
Vi è un accavallarsi di pensieri nella mia mente: mia madre, i miei amici, la cima, il cadere, il morire. Forse ho osato troppo, eppure mi sentivo forte, ma questa forza potrebbe abbandonarmi; devo muovermi prima che ciò accada. Alzo le gambe in spaccata, stringo i denti e libero in alto una mano, ma non ci sono appigli. Devo provare a battere un chiodo; dopo vari tentativi, riesco a conficcarne uno per un centimetro, ciò che basta ad equilibrarmi; lo afferro con due dita, mi alzo leggermente e afferro un altro appiglio. Tiro il cordino che avevo agganciato al chiodo e questo viene fuori senza la minima resistenza.
Sono circa a metà della seconda fessura, in una specie di caverna; un largo camino conduce sotto un tetto. Le pareti sono troppo distanti tra di loro e per di più levigate e viscide, poi il camino si chiude a k; lassù potrò progredire in spaccata, ma come arrivarci? Mi alzo difficilmente lungo la parete sinistra, poi non ci sono appigli. Riesco ad infiggere un chiodo a metà, gli scarponi scivolano sugli appoggi. Devo sbrigarmi! Mi getto con entrambe le mani sulla parete opposta del camino facendo pressione con una gamba, alzo l?altra e poso un piede sul chiodo sperando che tenga; ora posso mettermi in spaccata. Le gambe sono divaricate al massimo, i legamenti dell?inguine sembrano doversi spezzare da un momento all?altro. In tale situazione raggiungo il tetto, provo ad uscire a destra, ma la roccia è pericolosa. Batto un chiodo per potermi riposare, ma è impossibile. Riunire le gambe significherebbe non riuscire più ad aprirle. A sinistra la placca è perfettamente liscia, ma il tetto forma con essa una stretta fessura strapiombante ed obliqua: cerco in questa un qualche cosa che mi permetta di togliermi da tale situazione. Vi scorgo uno spuntoncino di un paio di centimetri sul quale riesco ad aggrapparmi con la mano sinistra.
È arrivato intanto nella grotta il primo degli slavi: mi guarda, e storce la testa. Mi prega di lasciargli i chiodi: me li ritornerà poi in cima. Mi sgancio dal chiodo, sposto la spaccata, un piede sulla placca e uno sul bordo del tetto e lascio l?ostacolo sotto di me. In breve raggiungo la terza fessura: seppur difficile, non dovrebbe presentare passaggi estremi. Sento di avere la vittoria in pugno, ma arrampico sempre calmo e concentrato. Verso metà fessura batto un chiodo per superare un ennesimo passaggio ostile. Seppure impegnato, cerco di pensare dove possono aver dormito i primi salitori: non c?è proprio niente su cui sedere. Vedo avvicinarsi sempre di più la cengia sotto i tetti, la fine delle difficoltà. Sono stremato dalla sete, sento tra i denti un sapore di terra marcia?
Dopo otto ore di dura arrampicata, poso i piedi sulla tanto agognata cengia. Mi volto per recuperare le corde: la parete è sotto di me; ho vinto! Un nodo mi gonfia ancor di più la gola; mi siedo, appoggio la testa sulle gambe, gli occhi mi si riempiono di lacrime. Signore ti ringrazio.
Ero contento perché avevo vinto la parete, ma soprattutto perché avevo vinto me stesso. Dopo anni di sacrifici e privazioni, avevo raggiunto il mio scopo. Ed ora sono contento come non lo ero mai stato; mai riuscirò ad esprimere a parole questo accavallarsi di sentimenti.
Giunti alla campagnola guardo per un?ultima volta la parete: il Diedro è sempre lì, il temporale è passato e la luce del sole ne illumina come ieri sera una faccia; è uguale, eppure diverso; vorrei poter tornare indietro. Era per me un mito e ci credevo; ora il mito è infranto, ma io continuerò a crederci.
http://alpinesketches.wordpress.com/2013/08/20/limpegno-di-arrampicare/
L'arte di salire in alto è dono degli dei, e molto spesso non è elargita al pari delle fibre bianche dei muscoli (Manolo)