da cialtrone » sab nov 05, 2005 0:29 am
Viene quando il resto del personale è andato via. Entra nella stanza a passi silenziosi, s'informa sottovoce, con un'intonazione di dolcezza uniforme, se voglio la camomilla, se riesco a riposare, se ho bisogno dell'iniezione calmante. Non guarda in viso: il suo sguardo resta fisso lontano, fermo in quel suo viso spoglio e rigido, senza età, da infermiera notturna, sotto la cuffia bianca. Torna dopo un'ora, - ha lasciato la porta socchiusa, - guarda se dormo, e se mi vede sveglio ripete le sue domande di anonima consolazione. Non ha mai cambiato il suo tono, il rituale della sua apparizione che è quello stesso che certo usa nelle stanze dei sofferenti e degli agonizzanti, dalla sera prima dell'operazione (in cui, nel pieno delle mie forze, non ancora abituato al clima ospedaliero, mi diede d'improvviso il senso che ero entrato in un al di là) ad ora che sono ormai convalescente. Abitatrice della notte, e del dolore, s'è identificata oramai tanto con questa condizione (che forse marcò la sua giovinezza e fissò la sua vita in una ripetizione di gesti d'astratta misericordia) che non le interessa di distinguere tra gli afflitti (e del resto altro non è tenuta a sapere, nulla oltre le prescrizioni che la Suora le lascia scritte per ogni malato, non so se su una lavagnao un quaderno). Del dolore ha compreso non la infinita varietà e gradualità ma l'inesorabile esser uguale a se stesso. Senza la speranza che dietro una di quelle porte - o dietro tutte - una sera il dolore sia finito, non commette mai quello sbaglio - quell'entrata rumorosa e ridente - che potrebbe portare, in un dolore che non finisce, la speranza. Ma la notte è piena di campanelli che suonano smorzati, insistenti, di gemiti: lei si muove nel suo regno silenziosa e sicura.