da dmax » lun ago 25, 2008 0:51 am
Ritorno sull'argomento, dopo aver fatto un sentiero alpinistico. Non è facile descrivere il mulinìo di sensazioni provate prima e dopo.
Avevo iniziato con qualcosa di più impegnativo dei sentieri con la Danesi al Corno Piccolo (vedi un po' di messaggi più sopra). Mi sono dimenticato di dire che ad un certo punto (non sapendo che si ritornava per altro percorso) volevo fermarmi. Era stato presumibilmente l'impatto psicologico: mi aspettavo di salire sempre con la protezione della corda, ed invece in molti punti si saliva senza nulla.
Poi, postando, questo momento di blocco non mi è tornato in mente. Interessante...
Ho rielaborato tante volte la salita sulla Danesi, per cercare di capire le mie sensazioni. Paura da una parte, dall'altra un crescente senso di sfida e una progressiva razionalizzazione.
Mi è capitata questa nuova uscita - direttissima del Corno Grande, sentiero alpinistico di I grado con passaggi di secondo.
Sono andato a cercare un po' di foto, e inizialmente ho pensato che non era per me, e ho detto a mia moglie che non sarei andato. Però poi, la notte, non ho fatto che rivedere mentalmente le foto, tutta la notte. Mi sono ricordato di quando da piccolo io e mio fratello andavamo alla parete di roccia vicino alla Capanna Alpina e, con i doposci, cercavamo di arrampicarci.
Ho mentalmente riprovato una sensazione antica e dimenticata, quella della roccia sotto le mani.
Quella notte ho capito che la montagna era la metafora della mia paura inconscia che ho sempre avuto di fronte alla vita e alle scelte importanti, la paura di non essere all'altezza, la paura che ti fa girare la testa, la paura che ti fa rinunciare senza neanche averci provato.
La mattina dopo avevo deciso di andare, e sono andato.
Mi sono preparato psicologicamente: ho pensato che era alla mia portata, dato che avevo già fatto la Danesi, e sull'esposizione (anche se i report dicevano che non era molto esposta) ho cominciato a dirmi "E perché devo guardare sotto se invece devo andare su?" o qualcosa del genere.
Sono andato, e non ho avuto problemi. Rispetto alla Danesi, fatta tutta in apnea e contratto, questa volta volevo assaporare la salita, sentire la roccia sotto le mani, provare fino in fondo le sensazioni. Volevo salire con calma, evitando di andare troppo velocemente, cosa che non mi avrebbe consentito di concentrarmi sulle mie sensazioni.
Ho messo le mani sulla roccia, ed è stato bellissimo. Le mie dita abbracciavano gli appigli, gli occhi cercavano il punto migliore di appoggio, la mente era lì, lucida, a sincronizzare i movimenti per avere sempre 3 appoggi sicuri.
Al primo passaggio nel canalino stretto non me ne sono neanche accorto. Al passaggio di II sul masso nel canale non ho avuto problemi. Un problemino al passaggio di II intorno ad un altro masso, in punto esposto, superato però senza patemi con una mano tesami da un compagno.
Sono arrivato in vetta, ero contento di me.
La stanchezza, e soprattutto la notte, invece, con il buio, ha riallungato le ombre su di me. Il sentiero di collegamento che avevo fatto all'andata all'improvviso mi sembrava molto più pericoloso di quanto ricordavo dalla mattina. La notte ho sognato e risognato quello che avevo fatto, e mi tornavano in mente le immagini del ripido pendio sotto di me, sognavo che scivolavo giù, così come per tanto tempo ho sognato di andare a sbattere con la macchina, poi con la moto...
Da tutto questo, e con la piccolissima esperienza che ho, ho capito che la montagna è concentrazione, è esercizio mentale per pensare positivo e scacciare i pensieri negativi.
E' anzitutto un esercizio mentale, ricerca di equilibrio e di tranqullità, di fiducia in se stessi, che va ripetuto e ripetuto perché nel mio caso sono sempre stato pessimista.
Ritornando quindi alla paura del vuoto, credo che la domanda sia mal posta. Certo, se guardiamo giù abbiamo paura. Credo che sia una cosa genetica, derivante da una selezione naturale. Ma perché dobbiamo guardare l'abisso?
Massimo