Ciononoatante, da buon filosofo mancato e da intruso, intrufolatosi surrettiziamente nel ristretto mondo dei climberss, volevo dare un piccolo contributo ar dibbattito.
1) mia impressione, da tempo, è che nel nuovo mattino ci sia un aspetto discretamente contraddittorio: partendo dalla critica alla lotta con l'alpe, si fanno poi inevitabilmente rientrare competitività e celodurismo dalla finestra.
2) vexata quaestio: l'alpinismo è o no uno sport? Se pensiamo, seguendo Emanuele Cassarà & c., a un terreno di gioco uguale per tutti dove si vede chi fa il grado più alto, non c'è dubbio che l'arrampicata sportiva lo sia.
L'alpinismo, si dice, è un'altra cosa: certo, lì le regole sono diverse, alla fine il più bravo è quello che rischia di più e torna a casa. Comunque il gioco, chiedo venia per la rozza semplificazione, è sempre a chi ce l'ha più lungo. Con buona pace delle sovrastrutture new age.
3) da alcuni post di ispirazione nicciana sembra trasparire l'idea che portare il rischio al limite sia un modo per arrivare a conoscere verità altrimenti inaccessibili. Non so se sia così, io personalmente sono certamente troppo coniglio (oltreché pippa) per raggiungere il satori in questo modo. Forse, questo potrebbe essere uno degli 84.000 modi per realizzare la via del buddha: mi sentirei comunque di escludere che sia l'unico.
4) ciò detto, io continuo ad essere convinto che l'arrampicata possa effettivamente avere una valenza "terapeutica", e uno strumento per capire alcune cose di sé. Quando però diventa, come non di rado accade, un'attività totalizzante che fa passare in secondo piano una serie di altre cose importanti, allora mi viene qualche perplessità (su questo peraltro si sono espressi con ben altra autorevolezza Motti, Rossa e altri). Su dove porre il cut-off, beh, questa credo sia una questione molto personale su cui è inutile pontificare.
Beh, ho esaurito per un po' la mia razione di pedanteria e recuperato il tempo perduto

Vacanzieri (ancora per poco) saluti
TSdG