50 anni dopo

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50 anni dopo

Messaggioda Lorenz » gio mag 12, 2011 16:44 pm

Un bell'articolo preso da La Provincia di ieri

Fréney Bonatti e Mazeaud
"fratelli" ancora in cordata


Se non ci fosse stato Walter, Pierre non sarebbe qui: «Lui mi ha salvato la vita, è mio fratello». Se non ci fosse stato Pierre, Walter non sarebbe la persona che è, non avrebbe nel cuore la pace che ha: «Di me avrebbero detto e ricordato una cosa soltanto: che un giorno avevo ucciso quattro compagni di cordata. Anche per questo lui è mio fratello».
I vincoli di sangue qualche volta non sono vermigli come il fluido vitale che scorre nelle vene, ma sono candidi come la neve. Non hanno per culla il calore di un fuoco e di una famiglia, ma il gelo di una bufera che risucchia vite con la voracità insaziabile di un buco nero. Non sono teneri come carezze, ma duri e scheggiati come la roccia. E' per questo che una montagna può diventare madre nello stesso momento in cui la sua meraviglia si trasforma in inferno, e le grida che accompagnano il suo parto sono di disperazione e insieme di guerra, sono grida che il vento porta via, lontano, facendole mulinare insieme ad anime esauste e perse.
«Fratelli si diventa» dice Walter Bonatti ora che le urla sono diventate sussurri. Ha la camicia aperta sul collo, l'eroe di cento e cento indimenticabili scalate. Tormenta con le mani nodose i braccioli della poltrona di pelle nera su un lato del grande palco del TrentoFilmFestival, e lo fa come se stesse cercando un appiglio più sicuro, o forse una fessura dove battere un chiodo al quale appendere un'emozione troppo grande.
Sorride, Walter, accanto a Reinhold Messner, il "re degli ottomila" che conduce questo irripetibile viaggio a ritroso nel tempo. Sorride, Walter, sorride ancora, sorride e si volta verso sinistra facendo dondolare il ciuffo candido che gli cade sulla fronte. Allunga il braccio, lo batte e lo ribatte su quello dell'uomo che gli sta seduto accanto, cerca la sua mano e la stringe forte, cerca il suo sguardo ed è quello l'istante in cui, se l'avevi scordato, ricordi che persino gli occhi si possono abbracciare. Pierre Mazeaud è lì, al fianco di Bonatti come cinquant'anni fa, è lì con la sua aria tranquilla da professore, sprofondato in un'altra poltroncina nera, incravattato e con gli occhiali con la montatura dorata che hanno preso il posto dell'invisibile elmo da guerriero di giorni lontani. Gli echi della battaglia combattuta nel luglio del 1961 sul Pilone Centrale del Fréney sono qui, danzano nell'aria, diventano immagini d'epoca che scorrono sullo schermo, si trasformano nelle parole che Messner mette in cordata, rivivono nei gesti filmati di altri scalatori impegnati sulla stessa meravigliosa via della quale in quei giorni si parlava come dell'ultimo problema del Monte Bianco. Una vertigine di granito. Una linea perfetta e diretta, un nervo di pietra alto settecento metri, in caduta vertiginosa ma saldamente ancorato alla montagna.
Accadde qualcosa di impensabile, mezze secolo fa, in questo scenario. Una cordata francese e una italiana, le cordate di Pierre e di Walter, si ritrovarono nel nido d'aquila di un bivacco nel cuore della montagna. Sette uomini, sette grandi sogni. Potevano scegliere di contendersi il diritto di andare per primi, potevano diventare rivali. In fondo, i francesi erano arrivati forse un paio d'ore prima. In fondo, Bonatti aveva già tentato, l'intuizione era stata sua.
Decisero di salire insieme, e le condizione meteo erano perfette. Arrivarono alla Chandelle - l'ultima parete strapiombante, a soli 80 metri dall'uscita della via - e lì si scatenò l'inimmaginabile. Fulmini, fulmini quando ancora il cielo era azzuro e l'aria tersa, fulmini come in un tiro incrociato di astronavi invisibili. E poi, poi fu un precipitare vorticoso e fulmineo di eventi. Vento, neve, bufera, una trappola micidiale, qualcosa di mai visto, di mai neppure immaginato, di sconvolgente ed epico.
I sette restarono bloccati per due giorni e mezzo ai piedi del Pilone, affrontarono tre bivacchi, calati in un crepaccio e già ridotti a naufraghi aggrappati a un relitto. Poi tutti insieme affrontarono, nella bufera, una discesa drammatica, disperata, che Bonatti guidò come solo lui poteva e sapeva fare. Andrea Oggioni, Pierre Kohlman, Robert Guillaume e Antoine Vieille erano forti, fortissimi, eppure quella discesa non riuscirono a portarla a termine. Si spensero come candele senza più cera. Bonatti tenne accesa la sua fiamma che dava luce e calore, e riportò giù gli altri: oltre a Mazeaud, il suo amico e cliente Roberto Gallieni.
Durò otto giorni, quattro dei quali nella tempesta e senza più viveri, la scalata interrotta del Fréney diventata una battaglia per la vita che mobilitò anche soccorritori lecchesi e che fece loro rivivere l'odissea vissuta quattro anni prima sulla Nord dell'Eiger dal "ragno" Claudio Corti. Durò molto di più - infiniti giorni, settimane e mesi e anni - la polemica sulla sconvolgente tragedia. Dissero che Bonatti non doveva andarci, a fare quella scalata. Dissero cose folli, crudeli: che aveva sbagliato tutto, che aveva fatto scelte assurde anche nella discesa, proprio lui che era il dio delle pareti che era. Dissero di tutto, in Italia, i "maestri" del dopo che non sapevano nulla o abbastanza del prima, del durante e del dove e come. Non eccepirono che i soccorritori, loro sì, pur con tutta la loro generosità avevano fatto errori imperdonabili e che se questo non fosse accaduto forse, forse, qualche vita sarebbe stata salvata.
«Per il Fréney ho provato sulla mia pelle quanto può essere crudele il mondo - dice Walter Bonatti nella notte sospesa di Trento - Per la stampa italiana ero un assassino, ecco cos'ero. Per i francesi, invece, ero l'uomo che meritava la Legion d'Onore per ciò che aveva fatto. Questo è accaduto, questo non posso dimenticare. E non dimentico che se Pierre non avesse detto ciò che ha detto, se non l'avesse fatto, io sarei rimasto per sempre un assassino».
Pierre, Pierre Mazeaud, l'alpinista francese poi assurto anche al rango di ministro della Repubblica, ascolta e fa sì con la testa portndosi le mani incrociate davanti al volto. Lui sa, lui c'era nell'inferno del Bianco, lui ha visto e lottato, lui ha raccontato. E adesso confessa la sua sorpresa: «Mi ha sempre molto colpito che il mio racconto di ciò che accadde sia stato lo stesso di Bonatti, senza che noi avessimo avuto occasione di parlarne, di confermarci l'un l'altro situazioni, particolari, dettagli. E ancora oggi sono incredulo, felice e grato di avere incontrato Walter lassù: ero convinto fosse ancora in Perù con Oggioni, addirittura, invece si è materializzato lì, al mio fianco. Senza di lui, non sarei qui.»
"Se la cercarono", come dissero in troppi? Ci furono errori? Scelte avventate? Colpe? Poteva essere previsto l'inferno che cambiò tutto e per sempre? E perché ogni cosa precipitò sulle spalle di Bonatti?
«Io mi muovevo in casa, del Monte Bianco conoscevo tutto - confessa Bonatti nel silenzio religioso dell'Auditorium Santa Chiara di Trento - Sapevo di non poter sbagliare, sentivo quella responsabilità: i miei compagni erano fortissimi, ma ho avuto subito ben chiaro che si affidavano a me. Con il senno di poi, forse quando si scatenò il maltempo avrei potuto decidere di scendere prima. Ma non la sento come una colpa. Era luglio, era il momento migliore per la "mia" montagna: io lo sapevo, il maltempo "doveva" passare, una bufera del genere non si era mai verificata in quel periodo.»
Solo parole? Solo una difesa? No. Davvero qualcosa di simile non era mai accaduto, a memoria d'uomo, sul tetto d'Europa. Sul palco del FilmFestival, non solo a dirlo ma anche a spiegarlo arriva Karl Gabl, incalzato dalle domande di Messner. Lui è un austriaco di Innsbruck, è considerato il genio mondiale delle previsioni meteorologiche trasformate in report per gli alpinisti. E' l'uomo che da anni, da quando ha perso il migliore amico in una bufera proprio sul Monte Bianco, dà consigli alle cordate di mezzo mondo. E' «il quarto membro della spedizione» che ha dato i tempi giusti e dunque ha reso possibile - giusto per citare l'ultimo episodio - la straordinaria vittoria prima invernale di Simone Moro, Denis Urubko e Cory Richards sul Gasherbrum 2.
Cosa racconta Gabl? Racconta che non è esistita previsione meteo degna di questo nome, in montagna, prima del '95. Mostra carte, mappe, dati, spiega come oggi invece sia possibile prevedere quanto freddo, quanto vento, quanto durerà il bel tempo su ogni picco delle Alpi così come - ora e da qui, esattamente da questo palco - sulla cima dell'Everest, all'altro capo del mondo. Poi Karl clicca il mouse e sullo schermo del suo computer fa comparire vecchie carte, vecchie mappe, vecchi dati. Sono i rilevamenti meteo di quei giorni lontani di luglio del '61. Raccontano un'evoluzione del tempo che solo adesso è leggibile.
C'era un fronte nuvoloso micidiale ed estesissimo come "in attesa" sull'Inghilterra, e l'inferno del Bianco lo portò quel fronte che si mise in movimento mentre sul Pilone ancora splendeva il sole e il cielo era blu. Su Courmayeur si abbattè un nubifragio spaventoso: 40 litri di pioggia per metro quadrato, pioggia diventata neve (non meno di mezzo metro, fino a più di 80 centimetri) in quota dove sette uomini si battevano per sopravvivere. Il jet stream, la corrente in quota che ruggiva sopra il Monte Bianco, a 9000 metri, correva a 300 chilometri orari. Ai 4000 e rotti metri del Fréney, la temperatura era di 12 gradi sotto zero, ma il vento - che in quelle ore soffiava con raffiche fino a cento chilometri orari - la faceva precipitare a meno 30.
E' ciò che oggi finalmente sappiamo, è ciò che Karl Gabl racconta, è ciò che cinquant'anni fa lasciò gli alpinisti senza difese, è ciò che lascia noi senza parole.
Pregarono, i naufraghi del Freney? Lo chiede uno spettatore, dal cuore della sala. Le gambe di Bonatti sono accavallate, non genuflesse. E Walter con lo sguardo dritto alla platea risponde scandendo le parole: «No. Siamo noi stessi gli unici attori e giudici della nostra vita?» Anche Mazeaud non è un credente, e non lo nasconde nella cattolicissima Trento: «Pensai ai miei figli, io che ero di sicuro sempre stato un pessimo padre. Non provai il desiderio di pregare, ma di cercare qualcosa, questo sì. In quel momento, dopo che Oggioni mi era morto tra le braccia, forse ho davvero cercato la fede».
Le mani di Walter e di Pierre si trovano ancora, si stringono. Messner sorride radioso, lui che da altoatesino confessa di aver voluto imparare l'italiano «proprio per poter leggere Bonatti». Chissà cosa vedono gli occhi dei due reduci del Fréney oltre il buio della platea. Il loro incontro diventa un abbraccio circondato da un'emozione che graffia i cuori di tanti e che in tanti non dimenticheranno. L'applauso di congedo non finisce mai. E sul palco, legati da una corda invisibile, non ci sono più solo due vecchi alpinisti, ma davvero due fratelli felici.
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Messaggioda casaro » gio mag 12, 2011 18:30 pm

Davvero bello.
Ed ogni volta penso a cosa devono aver passato sul Pilone quei 7 uomini...
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Messaggioda smauri » lun mag 16, 2011 13:52 pm

molto emozionante leggere queste storie, conosciute e già lette, ma in circostanze particolari o raccontate dagli stessi che l'hanno vissuta da sempre un pizzico di emozione in più. . .
...se un giorno ti verrà rimproverato che il tuo lavoro non è stato fatto con professionalità,
rispondi che l'Arca di Noè è stata costruita da dilettanti ed il Titanic da professionisti...
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