
Facciamo la pace dopo il IV Referendum?
Martedì, nel giro di poche ore, il presidente del Consiglio s'è avvicinato alla Coppa dei Campioni e s'è allontanato da Palazzo Chigi. Non ha ancora perso: ma ha fatto un passo deciso in quella direzione.
Non mi hanno convinto i sondaggi, i dibattiti o i bookmakers, ma il diluvio di lettere indignate al forum e l'umore in un paio di bar di Milano. «Ma chi crede di essere?» è la frase (educata, questa) che un primo ministro popolare e populista non vorrebbe mai ascoltare. Insultare metà della nazione non sembra una grande idea, ma è una notizia: onore (giornalistico) al Tg5 che l'ha messa in apertura (dal filmato risulta che il Capo non sta sorridendo). Su quest'episodio grottesco - il miglior colpo della sinistra è un autogol della destra - si chiude la campagna elettorale di un Paese confuso. Mentre i nostri ragazzi mandano in giro ingenui curriculum che nessuno leggerà, e accettano lo schiavismo bianco degli stage gratuiti (e ripetuti), noi abbiamo sprecato due mesi a discutere di tasse sugli interessi dei Bot di nuova emisssione (12,5% o 20%)? Su un investimento di 30 mila euro, la differenza è 70 euro.
Se un marziano - o, più semplicemente, un giornalista straniero - arrivasse in Italia, penserebbe che ci siamo bevuti il cervello. Comunque, la campagna elettorale è andata: per fortuna. Il IV Referendum su Silvio Berlusconi (dopo quelli del ?94, ?96 e 2001) è alle porte, ed è tempo di pensare al dopo. Anzi, al «subito dopo», che viene prima. Martedì qualcuno avrà vinto e qualcuno avrà perso, come in tutte le elezioni (per fortuna: Milano non è Minsk). L'alternativa è continuare questa guerra civile dei nervi che ha cambiato l'umore d'un Paese naturalmente gioioso. Meglio mettersi l'animo in pace, e rimboccarsi le maniche. Si può e si deve fare: la situazione non è irrecuperabile. Per usare un'espressione presidenziale, non ci sono «coglioni» in Italia: solo troppi uomini e donne che lasciano fermentare la propria intelligenza, trasformandola in furbizia.
La concordia post-elettorale sarà fondamentale, vista la mole dell'ìmpegno che ci aspetta. Ricordo la mattina dopo la rielezione a sorpresa di George W. Bush, nel novembre 2004. A Washington, gli unici che s'aggiravano con le espressioni affrante erano gli stranieri che speravano in John Kerry. Gli americani - repubblicani e democratici - si sono guardati in faccia e hanno detto: la vita va avanti. I presidenti passano, l'America resta. Qualcosa del genere dobbiamo fare noi. Non è buonismo: è buon senso. Non è un invito a lasciare tutto come sta (bisognerà smantellare molte rendite di posizione, per esempio, e il duopolio televisivo deve finire, chiunque vinca). E' un modo per ricordare che, dopo l'estenuante campagna elettorale, l'Italia deve tornare al lavoro. Non sarà facile: la passione politica è infatti diventata irrazionale come il tifo calcistico (prima si sceglie la squadra, poi si studiano i modi per difenderla con gli amici). Però è necessario. Beccarsi come polli nevrastenici può essere divertente, ogni tanto, ma non ce lo possiamo più permettere.
Diceva il cinico «Portaborse» di Luchetti e Moretti, anni fa: «Io preferisco uomini brillanti ed estrosi, anche se un po' mascalzoni, che uomini onesti e noiosi!». Bene: se esistono, questi ultimi, si facciano avanti, perché c'è da lavorare. La genialità, noi italiani, non dobbiamo cercarla: ne abbiamo fin troppa. E' proprio di noiosa onestà, di banale metodo e di patetica affidabilità che abbiamo bisogno. E di tranquillità. L'Italia dell'11 aprile, comunque vada il IV Referendum, sarà in uno stato post-traumatico. Urla e insulti non sono ammessi: il paziente potrebbe collassare.
Beppe Severgnini
(Dal Corriere della Sera del 6 aprile 2006)