Il pistolotto di cui sopra faceva bella mostra di sé appeso all'interno di un bivacco.
Dopo averlo letto mi sono chiesto come percepisco io la presunta sofferenza che la montagna richiederebbe. Ma questa sofferenza confesso che non l'ho trovata, e me ne sono ampiamente compiacuto.
Io quando vado in montagna e riesco a fare poca fatica sono più contento, infatti mi alleno proprio per farne il meno possibile, e quindi godere di più.
Il mio godimento, dunque, non sta nel privarmi di un bene per poterlo meglio gustare, il mio piacere di salire, ad esempio, non risiede nel riposo che ne conseguirà, ma consiste invece nel gesto in sé, nel procedere con minor fatica possibile sentendo che la mia macchina corporea risponde al meglio, nel sudare il meno possibile per aver meno necessità di bere e quindi di fermarmi e di consumare la provvista, non per poter meglio gustare una bevuta!
La solitudine dei monti, poi, mi piace un sacco di per sé, non me la creo soltanto per amplificare un presunto bisogno d'amore o di verità che al momento percepisco superflui (ovviamente entro i limiti del fisiologico).
Insomma, questa pedagogia della fatica, della privazione, della sofferenza non la condivido proprio, nemmeno come metafora della vita, perché anche se volessi credere in questa simbiosi tra fatica e felicità, la realtà di tutti i giorni sarebbe sempre lì pronta a smentirmi.
Credo che la montagna sia bellissima e godibile di per sé, non perché induca pedagogiche sofferenze, e in genere credo che affermare di saper soffrire non abbia senso. La sofferenza infatti è qualcosa che, quando viene, capita purtroppo nostro malgrado, e non c'è verso che si riesca mai a impararla.
Insomma, mi chiedo, si tratta forse del solito masochismo di stampo clericale-ottocentesco che sopravvive ancora in certa cultura alpina e del quale mi hanno riempito la scatole fin dalla scuola elementare, oppure sono invece io che sto diventando acido e intollerante oltre misura?
