Molti conosceranno queste righe:
"Comunque se vi sarà rinunzia, come si è già detto, sarà certamente sofferente, con strascichi di melanconia e nostalgie (a questo proposito si veda il libro di Walter Bonatti "I giorni grandi", Mondadori, 1971). Si può anche fare «La pace con l'Alpe» ma forse, anche se il paragone non è molto efficace, è come passare nello stesso giorno da una rappresentazione del teatro shakespeariano ad un film musicale hollywoodiano. Il proverbio dice anche che «chi si accontenta gode», cosa di cui si può essere più o meno convinti, soprattutto perché si è occidentali, quindi educati e cresciuti in una cultura occidentale, che ripone soddisfazione e felicità nella conquista di una meta. Se si fosse nati in Ladakh (Kashmir) e cresciuti nella cultura buddista, forse il proverbio avrebbe anche ragione. Ma certamente non si sentirebbe il bisogno di scalare le montagne e di misurarsi con noi stessi sulle pareti: l'alpinismo è un classico derivato della società occidentale e della sua cultura, impostata gerarchicamente nel rapporto uomo-Natura.
Accanto a questa corrente "pacifista", esiste il filone tradizionalista e conservatore, che propone un alpinismo forse non più romantico ed eroico come un tempo, ma comunque estremamente serio e severo nelle sue regole, anche se l'accettazione del gioco risulta meno istintiva ed emotiva, più razionale ed analitica. L'alpinista che si inserisce in questa corrente, sa molto bene che per la conquista della meta vi è un tributo di angoscia, di fatica e di sofferenza da pagare, ma evidentemente accetta il gioco in quanto si sente ampiamente ripagato da ciò che la scalata gli può offrire. I rappresentanti di quest'alpinismo proseguono, come se fossero investiti di una missione, nel portare avanti un discorso culturale tipicamente occidentale, inserito in una mentalità evolutiva tesa a spostare sempre più avanti il limite dell'impossibile (quindi a estreme conseguenze, anche a vincere la morte) o con mezzi molto severi e leali (ideologia di cui Messner si fa paladino), oppure con mezzi assai compromessi con la tecnologia ed ambiguamente in simbiosi con interessi finanziari e commerciali.
3.
Vi è poi una terza corrente di pensiero che cerca di realizzare una difficile sintesi tra le due correnti ma che opera invece una proiezione dal concreto all'astratto, trasferendo l'ideologia della vetta e della meta nella difficoltà pura. Costoro hanno rigettato il cosiddetto alpinismo eroico e non accettano i sacri canoni di unità di tempo e d'azione che invece sono regola nelle imprese dell'alpinismo tradizionale. Per essi arrampicare è (o per lo meno dovrebbe essere) un gioco, dove non esiste una meta da raggiungere (generatrice di insoddisfazioni a catena), ma semplicemente la gioia si trae dall'arramptcare stesso, senza pressioni finalistiche interne od esterne, assaporando a lungo la stessa permanenza e "vita" in parete e quasi dimenticando la fretta di riuscire ed il tempo.
È certo una proposta interessante, che però richiede una grossa rinunzia: quella dell'alta montagna, dove esistono pericoli oggettivi e dove l'ambiente è particolarmente ostile e severo (Alpi, Himalaya, Ande). È un gioco che può essere magnificamente condotto sulle solari muraglie granitiche della Yosemite Valley (California) o sulle fantastiche scogliere delle Calanques (Provenza, Francia), dove anche un cambiamento del tempo non presenta alcun rischio data la bassa quota e le possibilità di ritirata.
Particolare curioso: le scalate di questa genere sfociano quasi tutte su altopiani boscosi e prativi, assai lontani quindi dalla tensione drammatica della vetta simbolica. Su questi altopiani tutto finisce come per incanto: cessa l'ansia della salita e non esiste preoccupazione per la discesa in quanto inesistente, è la fine delle linee verticali. Come se si giungesse al termine di una salita mitica che porta ad un Eden ritrovato; qui finalmente ci si slega, si godono il sole, l'acqua fresca, il verde, i fiori e gli animali. In perfetta armonia con la Natura orizzontale ritrovata, senza ansia per il dono, ci si assopisce con la corda sotto il capo e poi scalzi, camminando sull'erba o nel sottobosco, ci si incammina senza meta e senza fretta.
Bismantovala Pietra di Bismantova, uno dei più bei "prati di vetta" e luogo di elezione della "pace con l'Alpe"
La proposta piace parecchio ai giovani, sopratttutto perché la "vita in parete" assume un po' il significato di disciplina di conoscenza di sé stessi, riportando alla ribalta filosofie orientali introspettive oggi assai di moda (yoga, buddismo-Zen). Il distacco infatti è molto più lento e graduale, vissuto più dolcemente. Il dialogo tra sé e sé, seppur raggiungendo dei livelli schizofrenici di separazione della personalita, non è combattuto e represso, anzi è cercato ed usato dialetticamente come strumento di conoscenza di sé stessi. Vi è però un grande pericolo che si cela nella pratica di questo tipo d'alpinismo: si può correre il rischio di mantenere la stessa ideologia dell'alpinismo tradizionale, trasferendo il simbolo della vetta nella difficoltà del singolo passaggio. La meta da raggiungere e superare non è più la vetta, ma la lunghezza di corda o il passaggio difficile e sempre più difficile, instaurando il concetto di limite delle possibilità umane. La scalata allora diviene come una serie di tante piccole vette da raggiungere, rappresentate da una sequenza di passaggi a sé stanti, dalla base alla cima. Così si genera una competitività con sé stessi ed un'angoscia di caduta ancora peggiore, sfociando quasi sempre nel tecnicismo più esasperato e nell'arido atletismo. E poi, anche in questo caso, la rinunzia alla "grande montagna" costa sicuramente sacrificio, in quanto questi ambienti di alta montagna creano un eccezionale palcoscenico naturale, in cui l'azione acquista un fascino ed un sapore ineguagliabili."
...ma forse qualcuno non le aveva mai lette.
Certo l'uomo era "avanti".
Salud
TSdG