Quella salita del versante Nord compiuta nel 1959 da Cesare Maestri e da Toni Egger, e conclusasi con la morte del fortissimo ghiacciatore austriaco.
Spreafico dice che dubitare è un modo per sentirsi liberi. Per i due che accusano è però anche un modo per potersi accreditare una prima. La prima di una parete impossibile di un monte impossibile. Saremmo, alla fin fine, all'oste secondo il quale il vino buono è quello suo, non quello dell'esercizio dirimpetto.
D'accordo, a dubitare non sono stati soltanto i due alpinisti che nel 2005 hanno ripetuto la via (o più probabilmente una variante, un'altra salita che interseca la prima).
Ma l'insistenza sul fatto che, in assenza di prove materiali, si debba dare per non fatta la salita, è cosa francamente sgradevolissima.
E siamo assolutamente allo stomachevole quando Salvaterra, con aria saputa, rivela all'intervistatore: «A me Cesare una volta l'ha persino detto». Detto che? «Che in cima forse non c'è andato». Dunque Maestri non è degno di fede quando dice di avere salito la parete Nord del Torre, cosa che ha fatto anche recentemente, quando è stata ventilata la possibilità di attribuire il Piolet d'oro, all'Arca dei Venti, la via del lecchese. A quest'ultimo invece si deve credere, perché lui non solo sache il trentino non è passato, in quanto non ha riconosciuto la descrizione dell'itinerario, non ha trovato chiodi, ma è anche il depositario di una confessione, fatta privatamente.
Senza prove, naturalmente. In questo caso vale la parola di re, alla Faruk.
Qui i casi sono due. Il primo è che veramente Salvaterra si sia esposto in questo modo, e allora, poiché siamo in libertà di opinione, ci possiamo permettere di ritenerlo un grande alpinista, ma un ancora più grande contaballe. Ricordiamo la già invocata sacra assenza di prove: c'è chi crederà solo quando vedrà i chiodi, chi quando avrà la registrazione o un documento scritto attestante con certezza l'ammissione. L'altra possibilità è che Spreafico abbia forzato la mano un po' troppo, trasformando in una rivelazione a sorpresa cose che Maestri ha già detto: per esempio che il fungonon lo ha salito, ai tempi della via del compressore, considerandolo una mutevole superfetazione del monte. Probabilmente ambedue le spiegazioni sono in parte valide. Perché questa è, sostanzialmente, una guerra di Ragni.
Il Ragno delle Dolomiti contro quelli di Lecco, sino dai tempi di Carlo Mauri, che nel 1958 tenta la cima, assieme a Walter Bonatti, da Ovest, mentre Bruno Detassis guida i trentini da Est. Entrambe le spedizioni falliscono l'obiettivo della prima assoluta.
Ma l'anno dopo Maestri è di nuovo lì. Lo accompagna all'attacco Cesarino Fava, il trentino emigrato in Sudamerica, suo ispiratore, con una lettera di alcuni anni prima. Compagno di cordata è Toni Egger, grande esperto di ghiaccio. Proprio le sue qualità, e lo stato della parete, consentono una salita relativamente rapida.
Nella discesa, con il tempo in peggioramento, la tragedia: Egger è spazzato via da una valanga, Maestri riesce faticosamente a calarsi con un pezzo di corda, vola a pochi metri dalla crepaccia terminale sotto la parete, ormai incosciente, è tratto in salvo da Fava.
A insinuare dubbi sulla riuscita dell'impresa, si diceva, è il 'Bigio". Dopo i 37 inutili giorni di lotta sulla cresta Sud-Est di una spedizione inglese («Fuggimmo come soldati sconfitti dopo una battaglia perduta, giù nelle tenebre patagoniche», scrisse Dougal Haston), dopo vani tentativi di giapponesi e argentini, i lecchesi ritornano al Torre nel '59-60. Casimiro Ferrari e Piero Ravà si innalzano sul versante Ovest sino a 250 m dalla vetta. Poi rinunciano. «Montagna impossibile», sentenzia Mauri, senza neppure citare Maestri. Ma se si tratta di una vetta che nessuno può scalare, è chiaro che nessuno ce l'ha fatta.
Il Ragno delle Dolomiti replica: «È impossibile solo per chi non ne è all'altezza». E ha l'idea infelice di tornarci anche lui, con il famoso trapano ad aria compressa: «Ho paura del Torre. Ma ritornerò. Maledetto Torre, maledetta la volta che sono andato in Patagonia. Basta, sono stufo ne ho piene le balle di questo alpinismo di merda». E qui ci va messo il carattere di scavalcamontagne dell'uomo. Maestri non ha mai fatto nulla per rendersi simpatico, anzi. E la scalata con il compressore non è la cosa più carina da farsi, in questo momento. L'issare in parete la macchina dell' Atlas Copco non piace ai più. Si tratta di un esercizio di faticosissima e rischiosa acrobazia, che più che alpinismo appare una vendetta, uno sfregio, e probabilmente lo è. Una risposta feroce ai detrattori, ma anche alla più fascinosa cima del mondo. Così la rivista britannica Mountain, fieramente ostile a Maestri, e convinta della falsità delle sue dichiarazioni in merito alla prima salita, titola Rape of Torre, stupro, e di una montagna vergine.
Di qui un susseguirsi di polemiche, fomentate anche dalla stampa, sino all'impresa di Casimiro Ferrari, che arriva in vetta al Torre, con Mario Conti, Daniele 'Ciapin" Chiappa e Pino Negri.
È il '74, e, pur nei grandi festeggiamenti la salita non viene accreditata come una prima.
Ma lo scorso anno Salvaterra e Garibotti salgono dalla parte di Maestri ed Egger, dichiarano che di chiodi non ne hanno visti, che la morfologia della parete, specie per quanto attiene al ghiaccio, non conferma le dichiarazioni rese dal trentino, e che quindi si tratta di prima ascensione di versante.
Ma anche, suggerisce l'autore, di prima assoluta per Ferrari: pur se la via del compressore, odiosa o no, rimane inconfutabile, Maestri ha rinunciato agli ultimi metri di ghiaccio.
E qui corre l'obbligo di ricordare che Giorgio Spreafico è un bravo giornalista – davvero, non nel senso dell' honorable manshakespeariano – che scrive però su La Provincia, giornale di Lecco e Como, curando una Pagina della montagnasettimanale che è un po' la Pagina dei Ragni. Che ha scritto Orme su vette lontane, la storia dell'alpinismo lecchese nel mondo. Che, insomma, è naturalmente orientato (così come certamente l'estensore di questo pezzo guarda positivamente a Maestri, che pure trenta-quarant'anni fa trovava caratterologicamente insopportabile).
Certo, l'autore può dire: io ho studiato a lungo, approfondito, ho parlato con tutti (non con Maestri che continua ad averne le scatole piene di questa storia), ma il fatto è che Spreafico monta i pareri alternando i pro ai contrari, ma rievocando e ridando potentemente voce a questi ultimi ( Le voci dal silenzio titola un capitolo, per non parlare dell'ignobile A me l'ha detto, altro capitolo).
Ricorda, un po' random, i tanti grandi oggetto di polemiche, da Mallory a Bonatti, Messner, Cesen, Bukreev, ma soprattutto fa lavorare il dubbio. Qualcosa resterà, diceva Voltaire.
E così quei lecchesi che nel '70 sono tornati con le pive nel sacco (ma gridando in coro «Sìììì!!», alla domanda: «È sicuro che Maestri il Torre non l'ha fatto?», svela Spreafico), quei lecchesi che nel '74 sono arrivati in cima su un monte dalle altezze dolomitiche con una spedizione degna dei colossi himalaiani per tempi e spiegamenti di forze, quei lecchesi che hanno salito la faccia Nord, otterrano in qualche modo il riconoscimento delle prime, almeno sub condicioneo a pari merito.
Torniamo all' incipit: Dubitare delle parole di un alpinista è da vigliacchi? Lecito scegliere: a livello di opinione personale diremmo di sì.