L'importanza di questo gigante mi aveva colpito fin dal giorno della invernale effettuata agli inizi del '74 con Diego e Pierino allo Spigolo Strobel della Rocchetta Alta di Bosconero.
E in effetti l'innevamento ne rendeva ancor più impressionante la sua compatta mole.
Nel Settembre mi si era presentata l'occasione di poterne affrontare la parete Nord con due amici feltrini; ma il cattivo tempo ce l'avava impedito.
A questo punto, a qualcuno verrà spontaneo di chiedermi perchè mai mi sia deciso a compiere la salita da solo.Quali i motivi?
Eccoli: forse il desiderio di essere a vivo contatto con la natura, libero di affrontare difficolta sempre superiori in piena intima unione con l'aspra e selvaggia natura, pur sempre insidiosa...Forse l'impegno di quei quattro giorni già lontani nel tempo, ma ancora ben presenti nella mia mente, che mi avevano fatto riconsiderare le vere dimensioni dei valori che la cosidetta civiltà ha reso piuttosto labili: la vera amicizia, la solidarietà verso i meno fortunati e più bisognosi, la bellezza del creato, la sua armonia...
E per contrapposizione ne scaturiva il confronto con la vita della città, cosi affannosa e nella quale il fluire armonico delle varie epoche, bruscamente è stato spezzato da realizzazioni ardite e perfette nella tecnica, ma che comprimono lo spirito, soffocandone ogni slancio.
Per praticare l'alpinismo solitario, occorre inanzitutto essere carichi psicologicamente; essere convinti di ciò che si sta per affrontare; avere un morale alto, anche perchè gli scoramenti non sono infrequenti.
Indispensabili una buona conoscenza delle insidie della montagna ed un adeguato allenamento.
Ritornando alla salita che sto per intraprendere, mi accorgo che il perdurare del bel tempo non ha -come mi sarei aspettato- ripulito in parte la parete, che si presenta fortemente innevata.
La marcia di avvicinamento è lunga e faticosa; l'amico Ugo Simeoni, fortunatamente, mi fornisce un valido aiuto nel trasporto del materiale, eppure spesso dobbiamo sostare un pò per riprendere fiato, e per la ripidità del pendio e per l'inconsistenza della neve che non riesce a sostenere il nostro peso.
Approfitto cosi delle soste per scattare alcune fotografie dell'ambiente che mi circonda: alla mia destra dove si staglia il Pelmetto, un pò in là, dove il sole illumina il versante Sud Est della Civetta.
Quel sole non è che un illusione lontana: dapprima grossi nuvoloni; poi un cielo sempre più plumbeo incombe minaccioso sulla nostra marcia. Non è che mattina!
Mi consulto con Ugo, ma decido di non desistere: la mia perseveranza sarà, verso sera, premiata; un forte vento da Nord ripulirà quasi completamente il cielo.
Siamo giunti all'inizio della via e Ugo si ferma, mi dà l'arrivederci e, prima di divallare per il ritorno, mi scatta una foto all'inizio della traversata lunga circa 400 metri che mi terrà impegnato tutto il pomeriggio ed il successivo giorno ( all'inizio forse uso più prudenza del necessario, ma il terreno e davvero malsicuro).
Solamente al terzo abbandono la cengia e, nel corso della giornata, mi innalzo di circa 300 metri. Sono molto teso nel superamento delle difficoltà. Il freddpo è intenso, ma mi rassicura, essendo apportatore di bel tempo.
Come i due precedenti, anche questo bivacco lo devo trascorrere sulla neve.
Devo pertanto assicurarmi con cura nel timore di un improvviso cedimento della bianca coltre. Assicuro ad alcuni chiodi anche il sacco e tutta l'attrezzatura, alla quale è legato il buon esito della salita.
E' l'aurora del quarto mattino! La primissima luce illumina freddamente l'imponente gruppo delle Tofane. Molto nette si stagliano la Tofana di Rozes e quella di Mezzo; più vicini i Lastroni di Formin, la Croda da Lago, il Becco di Mezzodi.
Il forte innevamento mi costringe spesso a ricorrere a varianti dettate dalla logica del momento.
Non è tanto la neve, infatti, a preoccuparmi ( con la spazzola, che davvero non è stato un peso inutile, riesco a liberare gli appigli), è invece il ghiaccio di fusione a rendere insidiosi alcuni tratti della via originaria. Uno sguardo a valle mi fa pensare al tragitto percorso e mi fa ritenere di avere superato circa metà parete.
All'imbrunire con una lunga traversata, mi porto alla ricerca di un possibile terrazzino al ripare degli enormi strapiombi.
( la neve inconsistente mi fa sempre temere un cedimento)
Alla fine dopèo averlo accuratamente ripulito, mi sistemo alla meglio su un "altarino" in leggera pendenza.
Sono ormai giunto al quinto giorno. Dovendo risalire uno stretto cunicolo innevato, per la prima volta debbo procedere al recupero del sacco usando il cordino. Fino a quel momento infatti, e nonostante il notevole peso, avevo sempre arrampicato con il sacco sulle spalle per abbreviare i tempi di salita. Ma, ora, sono costretto alla manovra, anche perchè il canalino è strapiombante ed il peso tende a spostarmi in fuori ed a sbilanciarmi. Per limitare gli effetti, aggancio il cordino di recupero al cinturone con l'ausilio di un moschettone e di un altro cordino e procedo alla bisogna.
Ecco il sacco è ormai vicino! E' enorme( pesa oltre venti chili) e, nonostante la mia cura, striscia sulle sporgenze della roccia. In qualche punto occhieggiano alcuni strappi e ciò desta in me comprensibile preoccupazione.
Cosa succederebbe se il suo contenuto scivolasse fuori? Meglio non pensarci!
Sono ora alle prese con questo diedro che fa parte della via originaria.Benchè le difficoltà siano maggiori, lo supero sulla destra; ne sono costretto dalla neve e dal ghiaccio che lo intasano. Supero i successivi strapiombi aggirandoli secondo l'oppotunità.
La mia autoassicurazione è cosi congegnata:Il sacco è bloccato con due chiodi al punto di sosta; due Prusik, inseriti sulla corda ancorata e fissati al mio cinturone, mi consentono di sfilare mano a mano la lunghezza necessaria mantenendo una costante assicurazione. Terminata la lunghezza dell'intera corda, la blocco ad un chiodo e ne annodo il capo con quello di una seconda; una volta esaurita anche quella, ridiscendo a recuperare sacco e materiale.
Posso cosi progredire con tratti molto lunghi( sempre assicurato) e guadagnando quindi tempo.
Il tutto procede con fluidità ed estrema coordinazione.
Ho fretta ed intendo uscire in giornata. A volte, aggiungo anche il cordino di 50 metri, raddoppiato. E con l'ultima tratta, esco finalmente in vetta.
Non ho tempo di guardarmi attorno e di assaporare la vittoria; il giorno è ormai al termine e sò di non disporrere che di un ora di luce.
Scendere e recuperare il sacco, significa dover effettuare un ulteriore bivacco e la prospettiva non è per nulla allettante (accuso un intenso freddo ai piedio, dovuto al fatto che nell'ultimo bivacco non mi sono tolto gli scarponi).
Decido quindi di scendere direttamente per il versante Sud e via, di gran carriera, verso il rifugio Venezia.
La preoccupazione di arrivare subito a valle è comprensibile, ma accentuata dal pensiero che da cinque giorni i miei sono in ansia.
E non conosco la via di discesa!
Nella fretta, giunto alla fine del canalone (zeppo di neve) non mi avvedo della cengia della normale che la taglia e continuo decisamente a calarmi per salti, canalini e cengette.
Giunto ad un certo punto, mi trovo nell'impossibilità di proseguire.
Qualche cordsa dopèpia avrebbe risolto ogni cosa, ma ne sono impedito essendo ogni cosa rimasta in parete!
Sono costretto a risalire, obbliquando a destra rimonto febbrilmente paretine piuttosto impegnative e mi riporto su terreno più sicuro.
Le difficoltà sono ormai al termine e in breve sono alla base.
Sprofondando nella neve raggiungo il rifugio Venezia. Mi fermo un atrtimo; è passata solo un ora ed un quarto dalla mia uscita in vetta ed è già notte!
Ormai scaricato dalla tensione, proseguo nella notte chiara sulla mulattiera, ora ricoperta di neve farinosa ora ghiacciata, e raggiungo infineVillanova di Borca di Cadore.
Mi attacco al primo telefono...
Dopo qualche giorno, con alcuni amici, torno a recuperare il materiale lasciato in prossimità della vetta.
RENATO CASAROTTO