Roberto ha scritto:Leggendo il topic di crodoialo "Un passo ancora e sei fuori", ho ragionato su questo passo che è sempre un momento speciale per lo scalatore, il passaggio dall' insicurezza alla serenità dell' essere fuori, salvo almeno per il momento, ne è uscito quello che segue. E' forse un po lunghetto per un forum ... mi è venuto così
La traversata del Mar Rosso
Ecco la sosta, il prossimo tiro è quello chiave, con il tratto obbligatorio.
Mentre armeggio con fettucce e moschettoni guardo quello che mi aspetta, cerco di intuire i passaggi del tratto impegnativo della prossima lunghezza di corda. La relazione dice che dopo i due spit relativamente vicini si deve andare verso destra, fino ad un chiodo, visibile solo a pochi metri. La placca è quasi verticale e all? apparenza non ci sono grosse prese, di quelle che sembrano isole salvifiche in mezzo al mare. Una bella incognita.
E? un anno che attendo questo momento, con ansia, curiosità e, perché no, un po di fifa. In realtà il passo più duro è tra i due spit, ma sta appunto ?tra i due spit?. Il resto è meno difficile, ma è da considerare più impegnativo dal fatto che è obbligato e cadere non sembra una alternativa fattibile. Passare in libera è l? unica possibilità, a meno di non armeggiare ore per fare pochi metri. Dopo i due spit tanti metri senza mettere nulla, poi forse un tricam in un buco, quindi altri metri di scalata per arrivare al chiodo, sempre se c? è ancora. Ho i chiodi con me, ma dubito che potrei metterne uno, arriverò lassù con le braccia lesse e il ?vibram? alle gambe.
Attrezzata la sosta scendo a recuperare lo zaino, risalgo disattrezzando il tiro precedente e torno alla base della successiva lunghezza.
Mi preparo senza tonare a guardare quello che mi aspetta.
Sistemo ben bene il materiale sull? imbrago, ripasso la corda nell? autobloccante che ho in vita, tiro fuori il foglietto con la relazione che tengo nella tasca dei pantaloni poco sopra il ginocchio destro e rileggo la relazione, mi fossi dimenticato qualcosa.
?Salire in verticale dalla sosta (due spit; VIII o A1) poi obbliquare lungamente verso destra fino ad un chiodo nascosto (VI e VI+, passo di VII+; possibile tricam). Continuare ancora in obliquo per due metri e salire alla sosta (VI). (35 m.; sosta con spit e chiodo)?
Nulla di nuovo, tutto da scoprire.
Sgancio la mia sicura, faccio un bel respiro e parto.
Quando ripeto una via a me sconosciuta, o apro un nuovo itinerario, c? è sempre una piccola palpitazione nel lasciare la sosta per attaccare il tiro, un? emozione dovuta all? incognita di quello che mi aspetta, come l? attimo in cui si lascia il trampolino per un lungo tuffo. Ed io mi tuffo nella placca di calcare, che dovrò superare con bracciate di arrampicata.
E? l? essenza dell? alpinismo, è l? avventura. Senza l? avventura non si lo può chiamare alpinismo, può anche essere difficilissimo, estremo, ma senza incognite resta solo il gesto atletico.
Come prevedevo il tratto tra i due spit è durissimo e mi appendo senza vergogna al primo e al secondo, tanto non devo fare la libera ma ?solo la solitaria?. Mentre riposo sul secondo spit cerco di capire come passare, ma già so che poi, mentre arrampicherò, tutto sembrerà diverso e non riuscirò a rammentare nulla di quello che mi sto prefigurando. Tanto vale andare e mi avventuro verso l? ignoto, che in questo caso sono soltanto una decina di metri di placca.
Per uno scalatore non occorrono distese di ghiaccio, foreste vergini, oceani turbinosi o suoli lunari per essere completamente in balia degli eventi, bastano pochi metri di roccia avara di prese ed appoggi e già sei ?verso l? infinito ed oltre!? Pochi metri diventano un piccolo infinito da colmare di ansia, coraggio, determinazione, fortuna.
Mi allungo e piglio una buona tacca con la destra, appoggio il piede in uno svaso, traziono e raggiungo un piccolo e netto forellino. Mi fermo e ci penso su, tasto la presa successiva e cerco di figurarmi il movimento da fare. Sembra fattibile, di certo lo è, non sono il primo a passare di qua ? iniziano i consueti dubbi sulle mie possibilità.
Adesso posso ancora tornare indietro arrampicando, al limite volare sullo spit, oltre comincerò ad avere seri problemi in caso di errore, devo decidere su continuare o no, ma non posso rinunciare al primo dubbio, non sarei qui se avessi veramente questa possibilità come opzione seria.
Mi decido e tirando il netto forellino salgo di quel tanto che serve per rendermi conto che la presa che avevo adocchiato non è un gran che, ma vedo che la successiva più in alto è invitante, in falesia diremmo una ronchia. Devo azzardare un po in aderenza, raggiunta quella sarò al sicuro, almeno finché non dovrò mollarla per proseguire.
Un po contratto ma senza grossi problemi la afferro e respiro.
Sarà duro lasciarla, sono ormai abbastanza alto sullo spit da avere una comprensibile paura di volare.
Mi sporgo un po per vedere l? agognato chiodo, adesso unico mio obbiettivo esistenziale, nel vero senso della parola. La sua presenza è come un atto di fede, un dogma assoluto: lui c? è, ci deve essere.
E se non c? è, se un secondo di cordata un po idiota lo avesse portato via? A che mi appendo quando arriverò stremato, con gli avambracci disfatti, sarei capace di piantane un altro? E se volo?
In questi momenti mi vengono i più strani timori: avrò fatto il nodo alla sosta bene? Il moschettone in vita avrà la ghiera ben serrata? ? Preso da questi dubbi verifico che l? imbrago sia chiuso correttamente, poi controllo che non si sia formato un po di lasco alla corda e con la mano libera la tiro dentro all? autobloccante che mi auto assicura in vita.
La presa che ho con la destra è buona, ma la mano inizia a stancarsi. Faccio un cambio per riposarla, non voglio partire con la mano acciaiata.
Continuo a studiare il tratto successivo e cerco invano il buco adatto al tricam.
Giulia è stata grande quando ha aperto questo tiro, ha avuto eccezionale intuito comprendendo che si passava, oppure grande coraggio se ha sfidato la sorte, o forse, più realisticamente, parecchia incoscienza. La possibilità di non trovare la presa giusta al posto giusto è alta e così lontano dall? ultima protezione. Io non sarei andato, forse avrei piantato un terzo spit.
E? in questi tiri che si vede la vera categoria dell? alpinista, la differenza tra un fuoriclasse e un mestierante. Il mio amor proprio è messo a dura prova di fronte a certi exploit, probabilmente quello che a me sembra un? incognita troppo alta per i miei mezzi, per Giulia è stato solo un rischio calcolato.
Devo andare, altrimenti mi stanco inutilmente, da qui tanto posso solo andare o cadere e preferisco andare ? sperando di non cadere.
Riporto la destra sulla presa buona e chiudo il braccio in un bloccaggio. Con la sinistra cerco inutilmente di afferrare quell? appiglio, troppo lontano. Se non ci arrivo io neppure Gulia ci arrivava, è più piccola di me, quindi devo provare in un modo diverso. Allento il bloccaggio e ritorno alla posizione riflessiva di prima. Cambio di nuovo la mano con cui mi tengo, cercando di riposare la destra.
Un attimo e riprovo alzando il piede destro al livello della mano, facendo un ?piede-mano?. Anche così non se ne parla di arrivare all? appiglio, tocco solo uno svaso immondo, a cui non potrei mai tenermi.
Forse Giulia poteva ed io no? Forse è qui che cadrò?
Un lampo di genio motorio mi prende senza preavviso e lolotto (*) decisamente con la gamba del piede-mano. Questo mi permette di riuscire a tenere lo svaso e raggiungere con la destra l? appiglio, piccolo e netto, ora non più troppo lontano.
Ma non è finita, sono a metà del guado. Anzi, in pieno Mar Rosso diviso in due dal bastone di Mosè, pronto a richiudersi con me dentro.
Ho un po di affanno, mi impongo di respirare profondamente e con ritmo, dicono che aiuta a scalare.
Non posso fermarmi, anche se ho il piede destro ben piantato, tengo con la sinistra uno svaso e con la destra una mini tacca, devo andare non ho molta autonomia in questa posizione.
Un attimo prima di ripartire intravedo il chiodo, fonte di vita terrena, l? altra sponda del mar Rosso diviso, una spiaggia ancora lontana da raggiungere. Mi giro e guardo con autentica paura la distanza con lo spit, cerco ancora invano il famoso buco per il tricam, anche se mi pare impossibile ora sperare di metterlo.
Mi decido è mollo lo svaso alla ricerca di qualcosa di prendibile.
Una serie di gocce, forellini, piccoli appigli e guadagno un po di metri. Mi trovo, quasi a sorpresa a tiro del chiodo.
Bello, per niente arrugginito riflette i raggi del sole, sta li da dieci anni, come un piccolo molo in attesa dei naufraghi che hanno guadato le acque del Mar Rosso. Ancoraggio sicuro a cui appendersi dopo la traversata ? Sicuro? Meglio verificare.
Lo tocco e mi accorgo con un vago terrore che si muove. Questa mia deve essere la prima ripetizione dopo l? inverno, il piccolo bastardo si deve essere allentato a causa del gelo e disgelo, non posso appendermi. Le mie braccia implorano pietà, gli avambracci dolgono e sono gonfi, ma devo resistere.
Prendo il martello e cerco di ribatterlo. Un colpo, un secondo e il chiodo rimbalza fuori, perdendosi tra le ghiaie sotto la parete.
Improvvisamente mi sento nudo, perduto. Il vuoto lasciato dal chiodo misura al millimetro la distanza dalla sosta: se cado mi ammazzo.
Con affanno prendo un altro chiodo dalla mazzetta che porto all? imbrago, lo posiziono è lo martello con furia. Come quello che è caduto arriva subito al fondo del buco e non mi da sicurezza.
Forse sono preso dal panico e vedo insidie ovunque, forse il chiodo è sufficientemente affidabile per appendermi, sta di fatto che la paura che possa cedere non mi permette di dargli fiducia. Sempre sorreggendomi all? appiglio con la ormai esausta mano sinistra, accoppio un secondo chiodo a quello già piantato e picchio col martello. Ora devo passare un cordino a strozzo sui due chiodi, in modo da farli lavorare insieme. Manovra banale in condizioni normali, ma adesso l? ansia di sbrigarmi mi rende imbranato e non riesco con la sola destra a strozzare il kevlar. Finalmente effettuo la manovra e afferro con la mano il cordino, mentre con l? altra lascio la presa e prendo in gancio fiffi che ho all? imbrago e con questo mi appendo.
Salvo!
Metto un moschettone nel cordino e passo la corda; respiro. Alzo gli occhi e vedo la sosta, manca un tratto di placca, pochi metri e sono fuori dal tiro.
Che paura, per poco il Mar Rosso si richiudeva mentre ero già sul bagnasciuga della riva opposta.
Passato l? affanno riprendo ad arrampicare, con pochi movimenti arrivo allo spit e chiodo della sosta, mi assicuro e proseguo con il consueto rituale della scalata in solitaria.
Ho traversato il mio piccolo Mar Rosso, grigio di roccia calcarea, cosparso di piccoli appigli scavati nel tempo dall? acqua, predisposti ad arte per permettermi di misurarmi con le mie paure, superarle, viverle e comprenderle fino in fondo.