Qualcuno di voi c?è stato? Recentemente?
Noi ci andammo la prima volta nelle vacanze di Pasqua 1987. Avevamo già visitato Finale, poi il Verdon. Mancava ormai solo questa mitica falesia e potevamo dire di aver visto (quasi) tutto. In quegli anni l?America era lontana due oceani: le grandi vie in Yosemite non ci attraevano affatto. Persino le Dolomiti e le Alpi Occidentali non erano più, per molti di noi, il sogno delle estati. Fatica, freddo, rischi?
La linea di spit ? e non più di venti metri.
Questo sì che ci piaceva. La linea luminosa di appigli. I movimenti aleatori e muscolari. I moschettonaggi con un piede per aria, mentre l?altro ostinato preme su una scheggiatura di roccia annerita dalla gomma. Una toppa bianchissima di magnesite sul bordo dell?appiglio verso cui si lancia. Un timido accenno di bianco anche su una ruga della pietra, su uno svaso evidente, ma che appiglio non è.
Sulle vie ?classiche?, e classica era anche Choucas, o La rose et le vampire (8a+ e 8b), capisci qual è l?appiglio da prendere grazie all?intensità del bianco. Se scorgi quella traccia netta e inconfondibile, ma un po? troppo lontana dalla tua fronte, sei avvertito. Inutile cercare di lato, inutile tastare un po? qua e un po? là. Se hai forza ti abbassi cinque, dieci centimetri e carichi un lancio (?Su dai! Socchiudo gli occhi e via una bella manata. Non è più il cervello che muove il corpo: è la mano che da sola corre velocissima verso il cielo e stringe, stringe. Solo un secondo più tardi la mente sarà informata se il lancio è riuscito oppure no. Se siamo ancora lì o due metri più in basso?). E se invece non hai forza, guardi tristemente lo spit e dici ?Blocca!?. E poi qualcosa tipo ?c***o?, ?Porca p*****a? (se sei maturato almeno un po? non lo urli ad alta voce, ma fra te e te). E ti senti avvilito. E magari cambi via perché su Choucas sei venuto solo a fare un giro ?per vedere com?è?.
?Vedere?? Vedere cosa? Quanto è duro l?8a+?
?Non bastano gli occhi per vedere, eh, Bibo? Ci vogliono anche le mani per salire!?.
Cosa mi voleva dire Andrea Gallo con questa frase che gli era uscita spietata quanto naturale? Siamo qualche mese prima del viaggio a Buoux, se non ricordo male. Siamo a Finale, a Monte Cucco, è la prima settimana di novembre 1986, il tempo è grigio e fa decisamente freddo.
Andrea porta in giro un gruppetto di romani. Ci fa vedere qualche via nuova. Poi ci farà vedere pure come dà l?assalto a Bombay, progetto allucinante in una falesia meravigliosa, l?Alveare: ciò che poi diverrà Hyena, 8b. (Caro Andrea, quante cose ho capito vedendo quei tuoi tentativi: la preparazione, la respirazione, i punti di recupero, la rabbia che ci vuole per fare un tiro duro?).
Ma insomma, veniamo a quella frase. Parto su una via di 6c. Sono buchi netti, davvero netti e anche profondi. Certo, la via strapiomba un po?, ma non sembra difficile. Salgo bene. Io non sono un climber di punta, ma mi difendo, ho salito qualche via di 7a e 7b. Ora che ci penso, però? Quanti 6c posso dire di aver fatto a vista? Pochissimi, forse nessuno!
La roccia è gelida. Comincio a sentire freddo alle dita. Anzi: le dita non le sento più, e non sento più gli appigli. Sento il mio corpo ridursi tutto negli avambracci, che sono duri. E poi un vago dolore segnaletico nella punta dei piedi: se il piede fa male, sto scaricando qualcosa sull?appoggio. Mancano solo due spit alla catena. Dai che va. Però tremo, ho il fiatone, le mani sono gelate. (?Ma c***o, se non faccio a vista questo, di 6c? Non mi ricapita più!?). Una mano si sta quasi aprendo mentre l?altra passa la corda nel penultimo rinvio. Vado giù! No, non ancora. Un ultimo sussulto di volontà, alzo il piede in un buco buono. Abbasso la mano che ha tenuto durante il moschettonaggio, la scuoto un po?. Ma non serve a niente. Comincio a vedere tutto bianco. È la nebbia, è la neve, è la roccia di Finale? Sono paralizzato, stoppato come l?immagine di un poster. Manca solo uno spit e poi la catena. Niente da fare. Non c?è più nulla: zero energie, zero volontà. ?Blocca! Oh! mi hai sentito? BLOCCA!!!?.
E poi.
?Ah, bellissima via, proprio bella. Certo, peccato essersi appesi, ma non importa. Come dici Andrea? Sì è vero, sono partito un po? a freddo? Ma forse ?sta via non ci arriva a 6c. A Sperlonga questa l?avremmo data 6b+, forse anche 6b. Come dici? Non posso parlare del grado perché non l?ho fatta in libera? Ma dai, Andrea, cosa importa? Mi sono appeso praticamente alla fine, avevo le dita congelate? Sì, hai ragione, non l?ho fatta in libera. Ma ho visto quanto sono grandi gli appigli! Dai Andrea, sono tutte ronchie, le ho viste coi miei occhi?.
E qui, come un colpo implacabile, quella risposta. Non bastano gli occhi per vedere, ci vogliono pure le mani per salire.
L?etica dell?arrampicata può essere durissima. Perché non esistono soltanto le regole (non scritte) che normalmente si applicano in falesia. Ci sono anche delle regole per così dire morali. Una di queste consiste nell?accettare silenziosamente gli insuccessi.
Inutile recriminare. Non esiste il ?quasi a vista?, o il ?quasi in catena?. Bisogna lasciare le giustificazioni, la chiacchiera, agli sport in cui c?è in palio qualcosa: un campionato, una coppa, del denaro.
In arrampicata, dove la prova è soltanto con noi stessi, vale a ben poco ricoprire di parole i piccoli abissi dei nostri inevitabili fallimenti. Come diceva a quei tempi ? ridacchiando - il mio amico Ignazio: ?con i se e con i ma, non s?è mai fatta la storia dell?arrampicata sportiva!?
L?umiltà, ecco la lezione che imparavo a vent?anni da Andrea Gallo. Bisogna riuscire, prima di parlare. Al di là del grado della via. Perché quel poco che ci rimane nel tempo, negli anni, da una pratica come l?arrampicata sportiva, è l?onestà con noi stessi. L?aver perso mille volte, ma essere riusciti di tanto in tanto a spuntarla: ad alzare di un centimetro l?asticella.
Buoux era la falesia che nella mia mente si identificava col grado 8.
Quante foto viste prima di partire! Anzitutto quelle di Marc e Antoine Le Menestrel, i veri Principi del luogo. E poi le vie mitiche. E, tra queste, la splendida linea di Elixir de violence, 8a. Un?enorme pancia a buchi netti e lontani, con un passaggio infame: proprio là dove la linea diventa quasi appoggiata. Dopo una notte di viaggio sul furgone di Stefano, dopo essermi detto ?stamattina assaggio solo qualche 6b??, puntualmente stavo lì appeso, senza riuscire peraltro a passare. Era ancora lunga la strada dell?umiltà, della misura.
Ma Buoux è un luogo magico anche per altri motivi.
Si arriva in un posto che chiamare un ?paese? è quasi una battuta. Sono pochissime case. La pronuncia stessa del nome rappresenta un enigma rimasto a lungo insoluto: ?biù? o ?biux??
Superato il piccolo villaggio, la strada scende e si entra in una valle divorata da tutte le possibili tonalità del verde. Le colline sono solcate qua e là dal grigio magnetico di splendide fasce di calcare.
Il profumo aspro della Provenza: erbe selvatiche, fiori. La terra rossa, il vento tiepido, il sole.
A Buoux ci sono stato quasi vent?anni fa.
Però - strana coincidenza - ho ritrovato improvvisamente quel nome di luogo e quell?atmosfera, un senso di vitalità e di lontananza, di desiderio e di sconfitta, nella prima pagina di un libro. L?autore, René Char, è considerato uno dei maggiori poeti francesi del Novecento.
La poesia s?intitola:
Sept parcelles de Luberon
Couchés en terre de douleur,
Mordus des grillons, des enfants,
Tombés de soleils vieillissants,
Doux fruits de la Brémonde.
Dans un bel arbre sans essaim,
Vous languissez de communion,
Vous éclatez de division,
Jeunesse, voyante nuée.
Ton naufrage n?a rien laissé
Qu?un gouvernail pour notre coeur,
Un rocher creux pour notre peur,
O Buoux, barque maltraitée!
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Traduco così:
Sette frazioni del Luberon
Stesi in terra di dolore,
Morsi dai grilli, dai bambini,
Caduti all?invecchiare del sole,
Frutti dolci di Brémonde.
Sopra un bel albero senza sciame,
Languite per comunione,
Scoppiate per divisione,
Gioventù, nube veggente.
Nulla è scampato al tuo naufragio
Se non un timone per il nostro cuore,
Una roccia cava per la nostra paura,
O Buoux, barca maltrattata.
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