Cina - i laogai

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Cina - i laogai

Messaggioda il.bruno » lun nov 21, 2005 18:04 pm

Si sente spesso dire che in Cina sono violati i diritti umani, ma questa arida frase, quando si leggono articoli come quello che riporto di seguito, diventa terribilmente concreta.



Da Il Giornale di oggi 21/11/2005
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=44397

Vi racconto gli orrori dei laogai i lager cinesi - di FILIPPO FACCI -

Filippo Facci

Mani curate, cravatta rossa e una certezza: l'economia cinese è basata sullo schiavismo. D'accordo, ne parleremo, ma anzitutto chiediamo a Harry Wu se vuole parlarci dei suoi diciannove anni rinchiuso in un laogai. Ci guarda mestamente: «Devi prima capire che cos'è davvero un laogai». E noi credevamo di saperlo: sono dei campi di rieducazione voluti da Mao Zedong che hanno accolto non meno di cinquanta milioni di persone dalla loro costituzione, praticamente l'Italia intera; si è calcolato che non esista un cinese che non conosca almeno una persona che vi è stata soggiogata. È una detenzione che non prevede processo, non prevede imputazione, tantomeno esame o riesame giudiziario o possibilità di confrontarsi con un'autorità. La decisione di rinchiuderti è a totale discrezione del Partito. «Ma loro» dice «per definirti usano la parola prodotto, e il primo prodotto sei tu, quello che devi diventare: un nuovo socialista. Il secondo è un prodotto vero e proprio, tipo scarpe, vestiti, spezie, tessuti, qualsiasi cosa. Ogni laogai ha due nomi: quello del centro di detenzione e quello della fabbrica. Tu devi affrontare una quota di lavoro quotidiano, sino a 18 ore, sennò non ti danno da mangiare. Spesso devi lavorare in condizioni pericolose, come nelle miniere, con prodotti chimici tossici». Una pausa, scuote la testa: «Ma neppure questo, in realtà, è il laogai». È come se Harry Wu, cinese fuggito negli Usa, non volesse parlare di sé. Eppure è presidente della Laogai Research Foundation, è una prova vivente, fu arrestato a ventidue anni dopo che all'università, leggendo un giornale assieme ad altri studenti, aveva semplicemente criticato l'appoggio cinese all'invasione sovietica di Budapest. Delazione. Manette. Nessun tribunale, nessuna prova o indizio, nessuna accusa precisa se non quella d'essere un cattolico e un rivoluzionario di destra. «Il primo giorno, a Chejang, mi dissero che per potermi rieducare sarebbe occorso molto tempo. Poi mi spiegarono che non avrei neppure potuto pregare né sostenere di essere una persona: perché mi avrebbero punito o ucciso. Mi obbligarono a confessare delle presunte colpe dopo aver costretto alla confessione anche mio padre, mio fratello, la mia fidanzata. Solo mia madre rifiutò di farlo. Sono stato molto orgoglioso di lei». Un'altra pausa. L'impercettibile imbarazzo di Toni Brandi, il coordinatore della Fondazione che ci sta facendo da interprete: «Non ha confessato perché si è suicidata». E tutto, attorno, comincia a farsi stretto, troppo in distonia col racconto, e troppo rossa quella cravatta rossa, troppo pulita la moquette di quell'hotel nel centro di Milano. «I primi due o tre anni», racconta Harry Wu, «pensi alla tua ragazza, alla tua famiglia, alla libertà, alla dignità: poi non pensi più a niente. Perdi ogni dimensione, entri in un tunnel scuro. Preghi di nascosto. In un laogai non ci sono eroi che possano sopravvivere: a meno di suicidarti o farti torturare a morte. Scariche elettriche. Pestaggi manuali o con i manganelli. L'utilizzo doloroso di manette ai polsi e alle caviglie. La sospensione per le braccia. La privazione del cibo e del sonno. Questo ho visto, e così è stato per preti, vescovi cattolici, monaci tibetani».
Ci mostra la foto di un vescovo di 33 anni, e ancora altre foto in sequenza che nessun quotidiano o rotocalco potrà mai riportare: uomini e ragazzi inginocchiati, una ragazzina immobilizzata da due soldati mentre un terzo le punta il fucile alla nuca, una foto successiva in cui è spalmata a terra con il cranio orribilmente esploso. Poi un filmato. È un dvd curato dall'associazione, e dovrebbero vietarlo ai minori e agli occidentali in affari con la Cina: esecuzioni seriali, di massa, i condannati inginocchiati, prima la fucilata e poi lo stivale premuto forte sullo stomaco per controllare che morte sia stata, un ufficiale di partito che per sincerarsene usa una sbarra d'acciaio, e anche di questo qualcosa sapevamo, ma come dire: il video, un video. Sapevamo pure delle fucilazioni e delle camere mobili di esecuzione: furgoni modificati che raggiungono direttamente il luogo dell'esecuzione con il condannato legato con cinghie a un lettino di metallo, il tutto controllato da un monitor accanto al posto di guida.
Poi via, si riparte verso altre esecuzioni da effettuarsi pochi minuti dopo l'emissione della condanna a morte. Noi sapevamo che la maggior parte delle condanne è pronunciata in stadi e piazze davanti a folle gigantesche, e che le cose, in Cina, sono tornate a peggiorare dal 2003, laddove ogni anno vengono giustiziati più individui che in tutti i Paesi del mondo messi insieme. «Nel 1984, dopo un articolo di Newsweek, smisero di portare i morti in giro per le strade come pubblico esempio», ci dice, «ma dal 1989 hanno ricominciato, e i familiari devono pagare le spese per le pallottole e per la cremazione». E la faccenda degli organi? «Le autorità prelevano gli organi dei condannati a morte in quanto appartengono ufficialmente allo Stato. I trapianti sono effettuati sotto supervisione governativa: il costo è inferiore del 30 per cento rispetto alla media, e ne beneficiano cinesi privilegiati e cittadini occidentali e israeliani».
E la faccenda dei cosmetici fatti con la pelle dei morti? «Dai giustiziati prendono il collagene e altre sostanze che servono per la produzione di prodotti di bellezza, tutti destinati al mercato europeo». Nel settembre scorso, della pelle di condannati o di feti, parlò anche un'inchiesta del Guardian: citò la testimonianza, in particolare, di un ex medico militare cinese che sosteneva d'aver aiutato un chirurgo a espiantare gli organi di oltre cento giustiziati, cornee comprese: senza ovviamente aver prima chiesto il consenso a chicchessia. Il chirurgo parcheggiava il suo furgoncino vicino al luogo delle esecuzioni e, stando alla testimonianza, nel 1995 tolsero la pelle anche a un uomo poi rivelatosi vivo. «Devi prima capire», ripete, «che cos'è un laogai». Forse sì, forse dobbiamo capire: dobbiamo poterci raccontare, un giorno, tra vent'anni, che sapevamo. «I laogai sono parte integrante dell'economia cinese. Le autorità li considerano delle fonti inesauribili di mano d'opera gratuita: milioni di persone, rinchiuse, che costituiscono la popolazione di lavoratori forzati più vasta del mondo. È un modo supplementare, ma basilare, che ha fatto volare l'economia: un'economia di schiavitù». Il numero dei laogai è imprecisato: è segreto di Stato. Secondo l'Associazione, dovrebbero essere circa un migliaio. I prigionieri, se la rieducazione fosse giudicata non completata, possono essere trattenuti anche dopo la fine della pena: «Io avrei dovuto rimanerci per trentaquattro anni, se non fossi fuggito. Perché avevo delle opinioni. Perché ero cattolico. Perché ero un uomo. Il 20 novembre compio vent'anni da uomo libero». Ieri. «E continuerò a lavorare perché la parola laogai entri in tutti i dizionari, in tutte le lingue. Appena giunto negli Usa non ne volli parlare per cinque anni, non ci riuscivo, poi cominciai a vedere che in America la gente parlava dell'Olocausto, parlava dei gulag, e però a proposito della Cina parlava solo della Muraglia e del cibo e naturalmente dell'economia. Ma i laogai, in Cina, esistono da cinquantacinque anni». Ben più, quindi, dei ventisette anni che ci separano dalla nascita della cosiddetta politica del figlio unico instaurata nel 1979 da Deng Xiaoping, prassi che ha spinto milioni di contadini a sbarazzarsi della progenie femminile: almeno 550mila bambine l'anno secondo l'organizzazione Human Rights Watch. Più dei due anni che ci separano dal giro di vite giudiziario introdotto nel 2003 nel timore che l'arricchimento potesse portare troppa libertà: laddove le madri e i familiari delle vittime di Tienanmen sono ancor oggi perseguitate, e i sindacati proibiti, i minori deceduti sul lavoro impressionanti per numero, per non dire dei cosiddetti morti accidentali: prigionieri che precipitano dai piani alti degli edifici detentivi e che solo il racconto di pochi scampati ha potuto testimoniare. A Reporter senza frontiere e ad Amnesty International è invece toccato il compito di raccontare della rinnovata abitudine di rinchiudere i dissidenti negli ospedali psichiatrici, spesso imbottiti di psicofarmaci senza che le ragioni degli internamenti fossero state neppure ufficialmente stabilite: accade nel Paese che per un anno e mezzo riuscì e celare l'epidemia Sars, giacché i dirigenti cinesi temevano che potesse scoraggiare gli investimenti occidentali. Cose delicate. La Cina cresce sino al 10 per cento annuo e si metterà in vetrina ai giochi olimpici del 2008: e ci sono da quattro a sei milioni di persone, rinchiusi nei laogai cinesi, che stanno lavorando per noi. Harry Wu domenica mattina è ripartito per Washington. Doveva incontrare Bush e festeggiare i suoi vent'anni da uomo libero. O forse bastava da uomo.
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Messaggioda Paolo Marchiori » lun nov 21, 2005 18:12 pm

Orribile....ma ormai la Cina è una superpotenza economica....e tutti tacciono, tutti continuano ad andare in visita ufficiale a stringer mani, a sorridere. Che schifo.
E gli danno pure le Olimpiadi....
Fa paura...fa troppa paura perchè si accertino fatti più volte denunciati da giornalisti e da piccole associazioni...
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Messaggioda Silvio » lun nov 21, 2005 18:18 pm

disgustoso; ne aveva già parlato beppe grillo sul suo blog, alcuni giorni fa...


16 Novembre 2005 - Organi freschi


Ricevo e pubblico una lettera di Harry Wu su quello che sta succedendo in Cina.

?Caro Beppe,

sono Harry Wu della Fondazione Laogai , con base a Washington, che si occupa della ricerca e della diffusione di notizie riguardo ai Laogai.

Ti ringrazio per il tuo interesse per la nostra Fondazione e per la tragedia dei Laogai, i campi di lavoro forzato in Cina.

Nei Laogai un numero imprecisato di milioni di persone, da 4 a 6 milioni, forse di più, sono, costrette a lavorare in condizioni disumane, a profitto del Governo Cinese e di numerose multinazionali.

Esecuzioni di massa con relativa vendita di organi freschi. Lo sfruttamento dei bambini sottoposti ai lavori forzati. Rappresaglie nei confronti delle varie Chiese. Gli aborti e le sterilizzazioni forzate.

Queste sono le realta' della Cina odierna! Realta' ignorate dai mass-media occidentali, che non vogliono disturbare i commerci internazionali.

Sabato scorso ho ricevuto il Premio Sciacca che ho dedicato:
- a tutti i milioni di cinesi perseguitati per la loro Fede Cattolica o per altre Fedi religiose,
- a tutti i milioni di detenuti nei Laogai,
- alle centinaia di migliaia di madri costrette ad abortire, anche se all'ottavo o al nono mese di gravidanza, spesso per mezzo di un'iniezione letale al feto,
- a tutte le centinaia di migliaia di persone fucilate durante le esecuzioni di massa, i cui organi, se in buono stato, sono spesso venduti con grandi profitti.

Quindi a tutte le decine di milioni di vittime, nel passato e nel presente, del Regime Comunista Cinese.

Sono stato intervistato da vari quotidiani e dal vostro TG2.
Martedi' ho partecipato a un dibattito alla RAI International e, oggi, mercoledi' daro' una conferenza stampa al Parlamento Europeo a Strasburgo. Daro' anche un'audizione parlamentare venerdi' mattina a Montecitorio.

Ti ringrazio sinceramente e spero di incontrarti presto?.

Harry Wu
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Messaggioda Topocane » lun nov 21, 2005 18:20 pm

leggevo ieri, su Diario, e oggi mi son voluto documentare un po'...
Avete sentito nulla dell'esportazione di sana pianta di TUTTO un sistema cantieristico edile, in blocco, dalla Cina ai veri paesi che ne abbisognano?!?!
il primo caso eclatante è l'Algeria, con una disoccupazione interna del 30% e un ingresso massiccio dell'edilizia da parte di un'impresa governativa cinese.
ho letto di trattamenti sindacali paurosi, con l'arrivo pure, in seguito, dalla cina direttamente di forze dell'ordine interne al cantieri, con processi sommari tenuti da un *sindacato* interno al cantiere, con operai poi rispediti in madre patria... di cui nn si sa più nulla... :roll:
ho trovato questo articolo, lunghetto, su LeMonde;
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Le Pagode di Algeri


Per far fronte alla crisi degli alloggi, il governo algerino è ricorso alle imprese cinesi.
Che a tempo di record e a prezzi imbattibili stanno costruendo intere città .

NICOLAS BOURCIER. LE MONDE. FRANCIA



UNA CITTÀ DI CEMENTO SPUNTA
dal nulla tra cielo e pietrisco, sperduta in un luogo anonimo,
su una strada algerina a una quindicina di chilometri da Constantine:

Ali Mendjeli potrebbe essere lo scenario ideale per un western moderno, con i suoi lunghi viali
senz'anima sopraffatti dalla polvere e dalla noia. Le strade sono deserte. Le gru immobili. È mezzogiorno.
A sinistra di quella che diventeràuna delle principali arterie del centro abitato, si susseguono dei palazzi
senza facciata e dei cantieri fantasma. Alcuni muri sono stati dipinti, altri no. Due giovani manovali tirano
la corda di una puleggia per sollevare un semplice mattonejn cima a un palazzo. Più in basso un cartello indica
il nome dell'impresa incaricata dei lavori: è la Geco, una società di costruzioai locale.
Di fronte, dall'altro lato della strada, l'atmosfera cambia: gli edifici sono allineati, compatti, i caseggiati
sono quasi finiti. Qui i colori sono pastello, le tinte tenui. I piani s'impilano gli uni sugli altri a perdita d'occhio.
Sui balconi cominciano a spuntare le prime antenne paraboliche. Al piano terra operai in divisa grigio beige
lavorano alle rifiniture. Sono cinesi. Visibilmente seccati, evitano gli sguardi e le domande. Più in alto,
sotto i tetti, c'è un grande cartello, anch'esso ben visibile. Si legge la sigla Cscec, che sta per
China state construction & engineeringcorporation, uno dei giganti dell'edilizia cinese. '
Il progetto di Ali Mendjeli è stato lanciato nel 2001 nel tentativo di risolvere il problema
del sovraffollamento a Constantine. Per far fronte all'enorme mancanza di alloggi, il governo ha scelto di
ricorrere alle imprese cinesi e ha permesso l'ingresso alla loro manodopera: attualmente in Algeria ci
sarebbero almeno diecimila operai cinesi. Una situazione anomala in ùn paese dove un giovane su tre è disoccupato.
Tutto comincia alla fine degli anni novanta, quando alcune imprese cinesi grazie allaloro velocità e ai
prezzi imbattibili - vincono degli importanti appalti per la costruzione di abitazioni di cui c'è urgente bisogno.
I primi lavoR sono consegnati in meno di due anni. Nell'estate del 2002 un'impresa cinese realizza
l'interconnessione delle dighe a ovest di Algeri per alimentare la capitale di acqua potabile.
Sono ancora dei cinesi gli operai chiamati a costruire dei tronconi della grande autostrada est-ovest.
Sempre dei cinesi riescono a ottenere un redditizio contratto per l'espansione dell'aeroporto di Algeri,
battendo il gruppo francese Bouygues.

Algeri e Pechino si riavvicinano. La cooperazione, già esistente durante la presidenza di Houari Boumedienne,
s'intensifica e acquista una dimensione nuova. Spinta dal boom economico, la Cina ha sempre più bisogno di energia.
L'Algeria invece cerca di allargare. i suoi mercati sia nel settore petrolifero, dove è già un esportatore affermato
a livello mondiale,sia in quello del gas. Nel 2004 i due paesi firmano degli accordi di scambio: materie
prime algerine contro prodotti'confezionaticinesi, da smerciare un po' ovunque sulle bancarelle del paese nordafricaro.
Nello stesso anno i diciotto gruppi cinesi di edilizia e lavori pubblici presenti in Algeria si
aggiudicano la maggior parte dei grandi cantieri. Una casa su due è costruita da lavoratori che
portano la divisa di un'impresa cinese. Secondo la stampa ufficiale di Pechino, circa 55mila abitazioni
finite o in corso di realizzazione sono state fatte grazie a queste imprese.
Il governo algerino ha come priorità la costruzione di un milione di alloggi entro il 2009:
i cinesi possono sperare in un promettente futuro. E non solo nel settore abitativo. Da Grano ad Annaba,
dalle periferie di Algeri alla raffineria di Skikda, le imprese cinesi sono ovunque,
sempre pronte a rispondere ai molteplici progetti annunciati da Algeri.

Un ritmo infernale L'ufficio progetti di Ali Mendjeli si trova a fianco di uno dei palazzi cinesi.
Un piccolo prefabbricato bianco conil cancello spalancato, dove s'incrociano architetti, ingegneri
e capomastri, sia cinesi sia algerini. Dietro la prima porta c'è una stanza. Quattro algerini seduti
intorno a un tavolo ammazzano il tempo. Fumano, si raccontano storie, scherzano sulla malvie
("cattiva vita", si riferisce al malessere sociale ed economico) che li circonda, sul paese
"che ha bisogno di tutto". Solo uno <:li loro accetta di parlare del lavoro che fa con i cinesi.
Lo chiameremo Omar. È un quarantenne dagli occhi nerissimi, dirige la squadra incaricata di controllare
lo stato di avanzamento del cantiere e si dichiara stupito dalla velocità di lavoro dei cinesi.
"Nonostante la mancanza di manodopera provocata dall'epidemia di Sars in Cina, le piogge torrenziali e
le storiche nevicate in Algeria, le ultime abitazioni saranno pronte alla fine di ottobre, con soli
sei mesi di ritardo". Come mai? "Il ritmo di lavoro degli operai cinesi è infernale e la loro organizzazione
del lavoro stupefacente". I cinesi non discutono mai sul cantiere,
non fumano ed eseguono gli ordini "come in caserma".

Una questione di costi Ornar fa una pausa, lancia un' occhiata ai colleghi che annuiscono con un cenno del capo,
e poi continua: "Lavorano a cottimo, cioè a metro quadrato.
Il vantaggio sta soprattutto nel tempo risparmiato".
Scarta l'idea di un problema di preparazione tecnica del personale algerino.
"È una questione di costi, un semplice problema economico".

Ornar avanza delle cifre: "Il prezzo medio per metro quadrato abitabile è di 20.800 dinari (230 euro)
quando è realizzato da un'impresa cinese. Per un'impresa nazionale è di soli 18.500 dinari (205 euro).
Ma i cinesi hanno realizzato 1.280 abitazioni in trentuno mesi mentre la società algerina Geco, che ha cominciato i
lavori nello stesso periodo, non ha ancora consegnato i cinquecento alloggi situati dall'altra parte della strada".

Nel pieno dei lavori c'erano quasi mille cinesi nei cantieri di Ali Mendjeli. Notte e giorno. Oggi, secondo Omar, resta solo un piccolo gruppo, al massimo un centinaio di operai, incaricati delle rifiniture. Gli altri sarebbero andati a lavorare nei cantieri aperti da poco, soprattutto dalle parti di Algeri.
Sono le tre del pomeriggio. Fa molto caldo. La porta dell'ufficio vicino è socchiusa. Dalla stanza.non viene nessun rumore.
Solo, seduto su una sedia, un.cinese scruta un foglio coperto di note. Sorseggia del tè verde freddo da una ciotola.
Offre una mela. Anche lui rifiuta di dire il suo nome, ma spiega in uno strano misto di francesI'!; inglese e arabo che è
ingegnere, che làvora nei cantieri algerini dal 2003 e che viene dalla provincia di Anhui, a ovest di Shanghai. Sposato e
senza figli, negli ultimi due anni ha preso solo un mese di ferie per rivedere sua moglie. "È dura", ammette.
Secondo i suoi calcoli "in Algeria un muratore cinese guadagna più che nel suo paese,
cioè circa ventimila dinari (220 euro) al mese contro gli ottomila dinari (90 euro) che si ricevono in Cina.
Nei momenti di grande attività, per esempio quando il cemento dev'essere colato, gli operai
possono lavorare fino a quattordici ore al 'giorno per due mesi consecutivi con un solo giorno di riposo".
Sorride a stento, sa che na toccato un punto fondamentale.
Poi, quasi a voler minimizzare quel che ha detto, aggiunge: "Ma nei periodi più tranquilli, come adesso,
abbiamo diritto a un giorno di riposo al mese".

Si interrompe per un attimo e poi ricomincia:
"Un operaio algerino guadagna tra i diecimila e i dodicimila dinari al mese (dai 110 ai 135 euro),
meno di un operaio cinese.
Ma l'algerino lavqra solo ventidue giorni su trenta.
Quindi è normale che i salari non siano gli stessi".
Quando gli chiediamo cosa pensa delle sue condizioni di vita, l'ingegnere abbassa un po' la guardia.
Spiega di dover rientrare ogni sera in quella che chiama la sua "base di vita",
dei prefabbricati situati vicino al cantiere, cinti da quattro alti muri e sorvegliati da un posto di guardia algerino.

I cancelli chiudono alle sette e mezzo di sera, tutti i giorni della settimana. "È come una prigione", scherza.

Barriere culturali Solo le sigarette e il tè vengono dalla Cina. "Abbiamo sospeso !'importazione di cibo perché
non reggeva il trasporto", spiega l'ingegnere. Lui e gli altri comprano il riso sul posto, nel mercato vicino.
Se hanno qualche disturbo ci sono a disposizione dei medici cinesi. Hanno anche degli interpreti per problemi di
documenti, permessi di lavoro, e assicurazioni. "Usciamo solo per andare al bar, abbiamo paura", si lascia sfuggire.
"Non abbiamo contatti con gli algerini, la barriera culturale è troppo grande". All'ufficio centrale dell'ispettorato
del lavoro di Constantine le finestre lasciano filtrare la luce fioca alla fine di una giornata di lavoro spossante.
C'è un viavai di persone, con gli occhi stanchi rivolti a terra. Alcuili aspettano seduti o in piedi.
Le porte sono aperte, non ci sono insegne, i muri sono stinti.
Due ispettori accettano di scambiare qualche parola:
un dialogo informale che non impegna nessuno.
Il primo fa un sospiro prima di confessare che non è in grado di controllare il lavoro degli operai cinesi:
"Ci vorrebbe un'intera squadra solo per loro, un ispettore per cantiere".
Il suo collega interviene e spiega che i cinesi vengono sempre con i loro interpreti,
"e questo rende ancora più difficile il compito di raccogliere informazioni".
I due uomini ricordano che la legge algerina fissa a quaranta ore la durata della settimana lavorativa,
"certo senza contare gli straordinari", e che è formalmente proibito lavorare per più di sei giorni consecutivi.
"Sono state accertate centinaia d'infrazioni, sono state fatte delle contravvenzioni, molti casi sono stati portati
davanti alla giustizia, ma...".
Il primo s'interrompe, alza le spalle e poi riprende:
"Ma che possiamo fare con un governo che vuole costruire un milione di alloggi?".
Una volta, raccontano, alcuni operai cinesi hanno manifestato a Tiaret, nell'ovest del paese:
hanno bloccato alcune strade e appiccato il fuoco ai loro prefabbricati
per protestare contro il ritardo nel versamento dei salari e le precarie condizioni di alloggio.
È successo solo una volta, poi "tutto è rientrato nell'ordine",
sottolineano senza precisare cosa è successo ai leader della protesta.
Quanto alle voci che accusano alcuni gruppi edilizi privati cinesi di impiegare prigionieri per abbattere i costi,
i due non ci credono. "Comunque non si può verificare", aggiungono prima di concludere:
"Ma qualé algerino, francese ù tedesco verrebbe a lavorare qui per più di trenta giorni di fila in cambio di quei salari?".
L'arrivo dell'efficientissima manodopera cinese non ha suscitato controversie, o quasi,
I mezzi d'informazione e la classe politica algerina non hanno reagito,
come se questa nuova migrazione fosse un fenomeno inevitabile, una conseguenza logica
per un paese dove il denaro del petrolio scorre a fiumi senza però trasformare l'Algeria in una nazione ricca.
"La vera questione", dice Khatim Kherraz, ex sindaco e attuale vicesindaco di Constantine,
"è se abbiamo il tempo di aspettare". Secondo lui, le autorità hanno fatto una scelta:
"Sì, ci serviamo di società cinesi che certamente generano disoccupazione, o in ogni caso non la riducono,
ma cerchiamo di rispondere il " più rapidamente possibile alla crisi degli alloggi".
"Non solo", continua, "tutte le vecchie grandi imprese edili algerine sono state sciolte negli anni novanta,
ma poi non è stata adottata nessuna misura per stimolare l'iniziativa nel settore.
E comunque i giovani algerini non scelgono più di lavorare nell'edilizia perché la remunerazione è troppo bassa".
Il vicesindaco teme una "fuga in avanti":
"I quarantuno miliardi di dollari di riserve di cambio nelle casse dello stato non incoraggiano a riflettere".
Evoca "la giungla" per la quale il paese non è preparato,
ricorda il "sistemavulnerabile" dell'Algeria dove la produzione locale è quasi inesistente
e il gettito d'imposta insufficiente. "In Algeria si trova di tutto, ma non si produce niente.
Un paese come il nostro come potrebbe resistere a un esportatore così potente?",
Le immagini scorrono.
Ain Mlila, a sud di Constantine, con le sue sontuose case in stile barocco dai tetti a punta "alla cinese",
abitate dai baroni dell'economia sommersa specializzati nel settore delle auto usate e dei ricambi importati
dal sudest asiatico. Ain Fakroun, un po' più a est, città satellite di cinquantamila abitanti
che vivono unicamente vendendo i vestiti cinesi di bassa qualità ::he arrivano ogni giorno in più di
cinquanta container stracolmi. Senza dimenticare tutti gli altri mercati, grandi e piccoli,
i giganteschi bazar del commercio globale della periferia di Algeri, dove i clienti si contendono
i telefoni cellulari made in China e tinished in Corea, o dove confrontano i prezzi dei ventilatori, dei
computer (tutti importati), dei Cristor, Prince o Unitron, televisori i cui pezzi vengono essenzialmente dalla Cina per poi essere assemblati in Algeria.
A Constantine è stato aperto da poco il primo negozio gestito da un commerciante cinese.
Ad Algeri ce ne sono già diverse decine. Vendono di tutto, soprattutto vestiti e prodotti di bassa qualità.
"Per noi qui è un po' come l'età della pietra a San Francisco (dove c'è una grande comunità cinese)",
dice sorridendo Hu, un giovane venditore che parla un inglese impeccabile. Questo ragazzo ha seguito suo padre,
venuto in Algeria per arrotondare una magra pensione. Come lui spera di rimanere tre o quattro anni,
la durata del permesso di soggiorno generalmente concesso dai servizi consolari. "Per uscire dal nostro paese
ci vuole tempo: ci serve una lettera d'invito professionale e dei documenti che non sono molto difficili
da ottenere, anche se a volte si deve pagare".
l'idraulico polacco Hu ride all'idea che potrebbe essere "una versione asiatica dell'idraulico polacco in Francia".
E continua: "È molto più facile venire qui che andare negli Stati Uniti o in Europa.
Per di più l'Algeria è un paese in costruzione dove il valore della moneta è basso".
La brezza sfiora la riva del mare.
La gioventù dorata di Algeri si ritrova sulla spiaggia privata Moretti,
a poca distanza dal Club des Pins e dallo Sheraton, costruito anch'esso da un'impresa edile cinese.
Ai tavolini dei caffè di questa residenza di stato, dove l'accesso è strettamente controllato
da poliziotti e guardie private, si può sorseggiare tranquillamente una bevanda alcolica
o assaporare qualche spiedino di carne aspettando il tramonto.
Questa sera c'è un gruppo di giovani sui trent'anni. Sono tutti cinesi, per lo più ingegneri.
Dieci uomini e cinque donne seduti intorno a un grande tavolo, ben decisi a bere, ridere e cantare.
"Usciamo poco", racconta uno di loro, "e agli operai sconsigliamo di andare in giro per strada".
Il gruppo deve rientrare prima delle dieci.
Come al solito prenderanno mi minibus guidato da un autista algerino per ritornare alla base che si.
trova dall'altra parte della città. "Sì, per noi è dura stare qui", sottolinea uno di loro.
"Il lavoro, la vita, niente è facile". Il più anziano del gruppo ricorda che la Cina è presente
in Algeria da più di vent'anni per costruire strade e infrastrutture.
"Ma quello di oggi è un fenomeno del tutto diverso, siamo diventati molto più numerosi.
La posta in gioco è più alta e i contratti sono importantissimi". E gli algerini?
"All'inizio abbiamo lavorato insieme negli stessi cantieri, ma non ha funzionato.
Erano lenti. Non si sono mai adattati ai nostri metodi".
Nessuno canta più. Il cameriere del bistrot prende un'ultima ordinazione.
Una birra per tutti, molto fresca.

:?
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