da Fokozzone » mer lug 06, 2005 8:22 am
Discorso pronunciato alla Fundaciòn para el
anàlisis y los estudios sociales
Madrid, 4 luglio 2005
1. L'Europa
Ho scelto di dedicare questo mio intervento alla forza
dell'identità perché questa forza oggi ci manca e perché
sono convinto che questa mancanza sia all'origine delle
nostre difficoltà. Cercherò di dare risposta a tre domande.
A chi manca la forza dell'identità? Perché manca la forza
dell'identità? Come si conquista la forza dell'identità?
Entro sùbito in argomento e comincio con la risposta
alla prima domanda. Il primo soggetto a cui manca la forza
dell'identità è l'Europa.
Consideriamo la situazione prima dell'attuale
fallimento della Costituzione europea. L'Europa aveva
davanti a sé due strade. Una era quella di diventare una
grande area di libero mercato con le minime istituzioni
economiche necessarie a farla funzionare. L'altra strada era
quella di diventare una grande forza geopolitica. Le due
strade non sono necessariamente incompatibili, perché una
grande forza geopolitica è anche una grande forza economica.
Ma le due strade non sono necessariamente convergenti,
perché possono esistere grandi aree economiche senza grande
peso politico.
L'Europa oggi è esattamente questo caso, perché non ha
imboccato nessuna di queste due strade.
Non ha imboccato la prima strada, perché l'Europa di
oggi è sì un'area di elevato benessere economico, ma non è
competitiva rispetto ad altre aree. Non è competitiva con
l'America che continua ad avanzarla, e cresce meno della
Cina e dell'India. Quando si rese conto di questa
situazione, l'Europa si dette un'agenda, l'agenda di Lisbona
2000. Se uno la rileggesse e confrontasse quanto lì è
scritto con la situazione di oggi, difficilmente si
sottrarrebbe all'impressione di trovarsi di fronte ad uno di
quei famosi piani decennali con cui l'Unione Sovietica,
prima di scomparire senza che lo sapesse, si riprometteva di
lì a poco di superare gli Stati Uniti. In quel documento si
stabilì che, in dieci anni, l'Europa sarebbe diventata «la
società basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica
del mondo, capace di crescita economica con più e migliori
posti di lavoro e più coesione economica».
Guardiamoci attorno e tratteniamoci dall'ironia. La
strada indicata a Lisbona l'Europa non l'ha imboccata. Ha
detto pochi giorni fa, il 23 giugno, il premier Tony Blair a
Strasburgo: «Ditemi: che tipo di modello sociale è quello in
cui ci sono venti milioni di disoccupati in Europa, che fa
calare i tassi di produttività sotto quelli americani, che
produce più laureati in scienze in India che in Europa?».
Più di un anno fa, il premier José Aznar, intervistato da Le
Monde, aveva dichiarato la stessa cosa: «Non c'è da vantarsi
di un modello che produce milioni di disoccupati».
Ma l'Europa non ha preso neppure la seconda strada.
Una grande potenza geopolitica è una potenza che assume su
di sé, da sola o assieme ad altre, responsabilità politiche
internazionali. È un soggetto mondiale con compiti mondiali.
Non può stare chiusa in casa, né può stare alla finestra a
guardare i suoi problemi sperando che passino e siano
risolti da altri. Invece, questo è proprio ciò che ha fatto
l'Europa. L'ha fatto con la guerra in Iraq, e continua a
farlo con Israele, il Medio Oriente, l'Iran, e tutte quelle
crisi in cui l'Europa si astiene dal prendere posizione o
intervenire. Come se essa non fosse interessata, come se
potesse fare da spettatrice, come se potesse delegare
all'America - salvo poi a criticare l'America - le proprie
responsabilità e decisioni.
Ritengo che sia stato un errore pensare di costruire
l'Europa come un "contrappeso" dell'America o aver cercato
di allargare l'Oceano atlantico opponendo una "visione
europea" a una diversa e opposta "visione americana". Su
questo punto, condivido ciò che José Aznar dichiarò a La
Vanguardia nel gennaio 2003: «Mi sembra assolutamente
ingiusto da parte degli europei accusare gli Stati Uniti di
unilateralismo e allo stesso tempo rifiutare di assumere
responsabilità in materia di sicurezza».
Ora che questo disegno ha mostrato i suoi limiti e la
Costituzione europea - un macigno di diritto e un monumento
di velleità - è fallita, trovo inutile spargere eurolacrime,
così come prima mi sembrava vacuo spargere euroretorica.
Dobbiamo piuttosto partire da capo. In due modi. Con le
riforme economiche e sociali senza le quali l'Europa è
grossa ma non grande, e cioè la flessibilità, la
competività, la riduzione dello stato sociale, le
liberalizzazioni, le privatizzazioni, l'innovazione
tecnologica, la ricerca scientifica. Ma, in primo luogo,
cominciando a chiederci in che cosa consista la nostra
identità. Perché solo chi ha identità è un soggetto che ha
obiettivi.
2. L'Occidente
L'altro soggetto cui manca o rischia di mancare la
forza dell'identità è l'intero Occidente.
Il senso di identità nasce spesso, negli individui e
nei popoli, per contrasto, quando le circostanze della
storia o della vita ci costringono a distinguere "noi" dagli
"altri". In Occidente, ciò sarebbe potuto accadere di fronte
al fenomeno della rinascita islamica. Ma non è accaduto, o è
accaduto raramente e prevalentemente in America.
In un agghiacciante comunicato diffuso dopo il
massacro di Madrid dell'11 marzo 2004, si dice che «oggi Al
Qaeda, qualunque denominazione locale assuma, ha distrutto
negli occidentali, educati dai loro media a ritenere ormai
minimizzato il pericolo del terrorismo, il loro senso di
sicurezza». In centinaia di altri comunicati si proclama la
«jihad contro ebrei e crociati». Ciò significa che noi
diventiamo bersaglio, in quanto occidentali, non per quello
che facciamo, ma per quello che siamo. La nostra colpa non è
l'agire, ma l'essere. In altri termini, per i terroristi, la
nostra colpa è la nostra identità.
Come abbiamo reagito? Abbiamo forse rivendicato la
nostra identità di ebrei e crociati? Ne abbiamo provato
orgoglio? Il contrario. Di fronte al fondamentalismo e al
terrorismo islamico, si è sparso per l'Occidente un senso di
rassegnazione, di rimozione e anche di resa.
Il pensiero medio e diffuso è stato più o meno il
seguente. Se ci sono fondamentalisti e terroristi che ci
definiscono "il Grande Satana", che ci considerano una
civiltà degradata, che ci dichiarano la jihad, allora deve
esserci una ragione. Se c'è una ragione, essa deriva da
un'ingiustizia. Se c'è un'ingiustizia, qualcuno l'ha
provocata. Se qualcuno l'ha provocata, allora è l'Occidente
ricco che è colpevole. E se l'Occidente è colpevole, alla
fine la jihad è la ricompensa dei suoi misfatti.
Alcuni leader europei hanno ragionato più o meno così,
pensando all'America. Milioni di pacifisti occidentali li
hanno seguiti. Molti intellettuali li hanno guidati. Noam
Chomsky, ad esempio, ha sostenuto che gli Stati Uniti sono
«uno Stato guida del terrorismo». José Saramago ha scritto
che «Israele deve ancora imparare parecchio se non è capace
di comprendere le ragioni che possono portare un essere
umano a trasformarsi in una bomba». Accanto a tanti che
hanno preso le difese o sostenuto le ragioni dei
fondamentalisti, non è mancato chi ha fatto di tutta l'erba
un solo fascio occidentale. Nel suo libro Al Qaeda e che
cosa significa essere moderno (2003), il professor John Gray
della London School of Economics ha scritto: «il comunismo
sovietico, il nazionalsocialismo e il fondamentalismo
islamico sono stati tutti descritti come assalti
all'Occidente. In realtà, ciascuno di questi tre disegni si
capisce meglio se lo si intende come un tentativo di
realizzare un moderno ideale europeo».
Ecco come si presenta oggi l'Occidente: come una terra
di penitenti che si battono il petto ogni volta che qualcuno
gli sferra un colpo.
3. Il relativismo
Perché? Siamo con ciò alla seconda questione che mi
sono posto: qual è la ragione di questo indebolimento della
nostra identità?
A questa ragione ho dato più volte un nome:
relativismo culturale. È noto di che cosa si tratta. Si
tratta dell'idea che le tradizioni, le culture, le civiltà,
sono sistemi autonomi e chiusi, ciascuna con propri criteri
di valore, procedure, istituzioni. Si tratta dell'idea
correlata che questi sistemi chiusi sono tra loro non
commensurabili, per cui non può esistere una scala comune
lungo la quale collocarle e misurarle tutte in termini di
superiorità, desiderabilità, attrattività, bontà, giustezza,
eccetera. Alla fine, si tratta dell'idea che questi sistemi
hanno tutti la stessa dignità etica, politica, sociale, sono
tutti da rispettare, sono tutti uguali. Tutti: i
fondamentalisti come i democratici, i fanatici come i
liberali, i violenti come gli umanitari, gli intolleranti
come i dialoganti.
Quello che oggi, in Occidente, si chiama "linguaggio
politicamente corretto" è il linguaggio del relativismo.
Esso è una sorta di "neolingua" orwelliana con cui in
apparenza si descrivono le cose con parole educate, ma in
sostanza si usano le parole per nascondere le cose sgradite.
Guardate gli effetti di questa «rieducazione
linguistica». Fra noi, in Occidente, possiamo dirci molte
cose e fissare molte gerarchie. Ad esempio, possiamo dire
che Gaudì è migliore di Le Courbusier, o che il Rioja è
migliore della Coca Cola, o che la Sacher torte è migliore
del Turron. Ma degli altri o delle cose degli altri non
possiamo dire altrettanto. E se qualcuno cerca di dirlo,
scatta la censura linguistica e la scomunica politica. Così
accade, ad esempio, quando volessimo dire che una democrazia
occidentale è migliore di una teocrazia islamica, che una
costituzione liberale è migliore della sharia, che la libera
società civile è migliore della umma, che la sentenza di un
tribunale indipendente è migliore di una fatwa, e così via.
Torna la domanda: perché? La mia risposta è: perché
l'Occidente, affetto da relativismo, pensa che se affermasse
i propri princìpi e valori e mostrasse la forza della
propria identità, allora sarebbe un Occidente arrogante,
sprezzante, protervo. E siccome l'Occidente intende invece
essere aperto e dialogante con tutti, ecco che, piuttosto
che difendere se stesso, indebolisce e nasconde la propria
identità. Samuel Huntington, che è stranamente considerato
il fautore dello scontro fra civiltà mentre invece ne è un
esorcizzatore, ha scritto: «la fede occidentale nella
validità universale della propria cultura ha tre difetti: è
falsa; è immorale; è pericolosa».
Se questo è il pensiero occidentale, se davvero si
crede che la parità fra uomo e donna valga solo per noi, che
la democrazia sia un costume nostro, che la libertà della
società civile sia valida fra le nostre mura, che le libere
istituzioni siano buone solo per noi, insomma, se davvero si
crede che tutto ciò che vale per noi non vale per gli altri,
allora non c'è da meravigliarsi che noi storciamo il naso
quando si parla di esportazione o diffusione della
democrazia, o arrossiamo quando si discute di diritti umani,
o ci blocchiamo quando si deve stendere una lista di
organizzazioni terroristiche, o ci nascondiamo quando
vediamo rinascere l'antisemitismo.
4. La forza dell'identità
Sono all'ultimo punto. Come invertire la rotta della
perdita progressiva della nostra identità? Gli aspetti del
problema sono molti e qui desidero richiamarne uno, quello
dei valori, in particolare dei valori cristiani.
Non sono un credente, sono un laico. Ma una
precisazione è fondamentale: non sono un laicista. Laico è
colui che non aderisce ad una religione o confessione
specifica, laicista è colui che, nel nome della laicità
dello Stato e della politica, impone una propria religione
di Stato e una propria religione politica. Faccio qualche
esempio. È laicista quello Stato che vieta il velo nelle
scuole alle ragazze musulmane. È laicista quello Stato che
vietasse il crocefisso o le preghiere nelle scuole o nei
luoghi pubblici. È laicista quello Stato che proibisse agli
uomini di chiesa di predicare la propria missione o di
prendere posizione su questioni pubbliche. Ed è laicista
quello Stato che fa sulla società esperimenti di ingegneria
per cambiare o cancellare con la forza della legge istituti
fondati su valori della religione e della tradizione, come
la famiglia e il matrimonio.
In Italia il pensiero laicista ha imposto un
referendum al Paese contro una legge di compromesso
approvata dal Parlamento su materie delicatissime come la
procreazione assistita e la manipolazione degli embrioni per
la ricerca medica. In quel referendum il laicismo è stato
sconfìtto in modo clamoroso grazie ad una alleanza niente
affatto clericale tra la Chiesa, il sentimento profondo dei
cittadini, e una minoranza di laici non laicisti. Questa
alleanza aveva tutti contro: i grandi giornali, il ceto
intellettuale, attori del cinema, divi della scienza, quasi
tutta l'area politica cosiddetta "progressista" e
"illuminista". Costoro hanno perso non perché gli italiani
siano diventati clericali o oscurantisti o medievali, ma
perché si sono ribellati all'arroganza del pensiero elitario
laicista e si sono preoccupati di porre limiti
all'onnipotenza della scienza in nome della tutela della
vita.
In Spagna le cose sono andate diversamente. Qui
l'attacco è stato mosso all'idea stessa di matrimonio con
una manovra a tenaglia: da un lato il divorzio lampo,
dall'altro il matrimonio omosessuale. Così una bella fetta
della nostra identità se ne è volata via. Come evolverà la
situazione non posso dire. Una cosa per me è chiara: è falso
che si tratti di "conquiste civili" o di misure "contro le
discriminazioni" o di "estensione dell'uguaglianza"; si
tratta piuttosto del trionfo di quel laicismo che pretende
di trasformare i desideri, e talvolta anche i capricci, in
diritti umani fondamentali.
Questo laicismo a me sembra antistorico e anche
pericoloso. L'Europa in particolare ne è vittima. Quella
stessa Europa che, nella sua Costituzione, vieta la
«clonazione riproduttiva», aprendo la strada a quella
terapeutica e, con essa, a qualunque esperimento sugli
embrioni. O quell'Europa che, sempre nella sua Costituzione,
riconosce «il diritto di sposarsi e di costruire una
famiglia», senza precisare chi con chi, legittimando così,
anche da defunta, legislazioni come quella spagnola. Oppure
quell'Europa, che, nel preambolo generale alla sua
Costituzione, afferma di ispirarsi alle sue «eredità
culturali, religiose e umanistiche», e, nel preambolo alla
seconda parte della stessa Costituzione, parla del suo
«patrimonio spirituale e morale», ma senza specificare mai
quali religioni e quale religione in particolare.
Credo che nascondere la nostra tradizione cristiana
sia, oltre che un omaggio al laicismo, anche un passo falso.
Coloro che più lo hanno compiuto oggi più ne pagano il
prezzo. A fronte alla crisi dell'Europa, e al senso di
incertezza., insicurezza, diffidenza, paura che si diffonde
fra i nostri cittadini, rinasce prepotente un sentimento del
sacro, un bisogno di fede, una voglia di spiritualità. E
così ciò che si è voluto espungere dalle carte europee
riemerge nelle famiglie, nelle piazze, nelle chiese, fra la
gente. È una richiesta di identità, che è pericoloso
sfidare, e che invece dobbiamo comprendere, indirizzare,
governare.
Noi, compresi noi laici non credenti, esclusi
naturalmente i laicisti, siamo cristiani. Siamo cristiani
per i valori che professiamo e i princìpi in cui crediamo.
Siamo cristiani anche quando proclamiamo la separazione fra
Stato e Chiesa e fra politica e religione. Siamo cristiani
o, più precisamente, siamo giudaico-cristiani per storia
anche quando non lo siamo per fede.
È vero, siamo anche una mescolanza. Siamo figli di
Atene e di Gerusalemme, di Roma e di Betlemme, e di tante
altre cose ancora. Ma ovunque si cerchi la nostra genealogia
più profonda, comunque si cerchi la nostra identità, si
finisce sempre lì, al Sinai e al Golgota. È lì che abbiamo
avuto la legge ed è lì che ci siamo scoperti uguali o
fratelli.
Chi nega questa realtà rischia la fine
dell'apprendista stregone: prima si indebolisce poi diventa
vittima. Noi invece questa realtà dobbiamo ritrovarla. Non
per diventare protervi custodi di un'unica verità, ma per
affermare la nostra e riscoprire noi stessi. Fallibili,
aperti a chi vuole parlarci, disponibili a chi vuole
incontrarci, ma sempre noi stessi, con la forza della nostra
identità.
Sen. Marcello Pera
Presidente del Senato della Repubblica italiana
FONTE: sito del Senato