Da attento lettore delle guide del CAI TCI, mi ha sempre incuriosito che gli Autori, per taluni itinerari, utilizzano la dicitura itinerario sconsigliato, che è un giudizio netto e tranciante, senza possibilità di discussione. Perché allora menzionare tali percorsi? Forse per la valenza storico-antropologica? Per l'importanza dei nomi degli apritori? Per un quadro più completo della montagna oggetto della trattazione?
Quante domande!
Quando ero alle prime armi – non che ora sia un gran esperto – mi chiedevo pure su che base e con quale metro di giudizio venisse emessa questa sentenza. Ovviamente l'unico modo per saperlo era il percorrere questi itinerari. Però: quali capacità mi richiedevano? Che tipo di preparazione?
A lungo ho sognato di poter fare uno di questi percorsi e a lungo ho dovuto attendere, maturando pian piano esperienza, capacità e...coraggio!
Si coraggio. Percepivo che gli itinerari sconsigliati dovevano differire da quelli, invece consigliati, dalla impossibilità di proteggersi. Infatti ciò che li accomuna è la mancanza di chiodatura, citata invece nelle altre vie. Da dire inoltre che gli itinerari sconsigliati non vanno oltre il secondo grado, difficoltà che nella tradizione della maggioranza degli alpinisti non abbisogna di protezione alcuna.
Dunque è la tipologia del terreno che crea le condizioni per sconsigliare certi percorsi.
Penso a un migliaio di metri di dislivello con tanti mughi; a pendii erbosi ripidissimi con roccette instabili; a boschi in piedi interrotti da fasce rocciose piene di loppe; a creste marce, canaloni viscidi, traversi da brivido.
Infine ne ho percorsi alcuni di questi vituperati itinerari: non posso essere che d'accordo con il giudizio del compilatore.
Dirò di più.
Ora che guardo alle mie povere realizzazioni, con sorpresa mi rendo conto che un probabile Autore di guide del CAI le definirebbe, senza carità cristiana, itinerari sconsigliati.
A forza di prepararmi psicologicamente ad affrontare gli itinerari sconsigliati mi trovo ora ad esserne un maniaco, tanto da aprirne a mia volta alcuni.
Invece di allenarmi per le difficoltà su roccia, impratichirmi delle manovre d'assicurazione, trovarmi un compagno fidato, insomma rampegotar divertendomi (cit.), ho deviato dalla retta via per precipitare in oscure fatiche prendendomi rischi inutili. Per giunta questa tipologia di itinerari sono tipici dei monti più anonimi, per cui non servono assolutamente per crearmi un curriculum di rispetto.
Ecco allora che comprendo con quale metro di giudizio si definiscano sconsigliabili alcuni percorsi:
a) la roccia è poca e pure non solida
b) i pendii erbosi sono ripidissimi
c) molta parte del percorso è tra vegetazione inestricabile
c) difficoltà tecniche modeste
d) impossibilità di proteggersi
Se ne deduce che il mondo dell'Alpinismo, di cui le Guide CAI TCI sono la bibbia, aborre le caratteristiche su menzionate, preferendo difficoltà maggiori (con conseguente uso di protezioni). Solo per andare agli attacchi talvolta si sopportano tipologie di terreno con caratteri sopra elencati.
Mi accorgo per deduzione logica di non essere un Alpinista.
Che cavolo sono?
Non che questa domanda non mi faccia dormire: ho sempre guardato all'Alpinismo come a un mondo mitologico, inarrivabile, pieno di gente fortissima, nel cui ambito non sarei mai potuto entrare.
Sono un Escursionista?
Questa definizione mi calza di più. In effetti io cammino, dal fondovalle alla vetta, per lo più cammino; qualche tratto arrampico, sul facile. Non conosco però molti altri Escursionisti par mio; trovo difficilmente qualche compagno, vengono con me qualche volta – più spesso una sola - e poi non si fanno più vedere; a distanza di tempo so di loro che si sono arruolati nell'Alpinismo e deridono il mio modo di andare in montagna. Oppure ritornano alle escursioni a cui erano abituati, coi segnavia e i rifugi e la birra.
Resto solo col mio tarlo nel cervello. Salgo la montagna per gli itinerari classici, poi la guardo da tutti i lati e scovo linee di salita che nessuno leggerebbe: costoni, canaloni, pareti miste, spigoli; non devono essere verticali, so già che non passerei; piuttosto erbosi o pieni di mughi. Faccio una o più uscite preventive per capire come andare all'attacco; e poi parto. A volte mi riesce, a volte vengo respinto da difficoltà superiori alle mie capacità.
Quando arrivo in cima per una via ideata da me e faticosamente voluta, le sensazioni di appagamento, autostima, grande gioia, non sono quelle che può avere un Escursionista che sale una via classica, né quelle di un Alpinista che ripete una pur difficile via (conosco entrambe le gratificazioni); solo un apritore di vie può sapere di che parlo.
Ma siamo sempre li: non conosco nessun apritore di nuove vie che non utilizzi i mezzi d'assicurazione.
Per cui oltre alle emozioni della riuscita di un'impresa mi godo anche la graditissima sensazione d'orgoglio per avercela fatta solo con le mie capacità, senza aiuti artificiali.
Libero.
Sconsigliatamente libero!
http://www.latanadellorso.altervista.org/Via%20pal%20Bos/report.html