L?avevo vista da lontano, tre anni fa, dalla cima del Sasso delle Dieci (la vetta più alta tra quelle che costituiscono l?alta scogliera del Sass dla Crusc), e ne ero rimasto impressionato. Quei suoi enormi lastroni quasi verticali la rendevano singolare e inquietante, stranamente lontana, repulsiva, barbara e regale. Si teneva ben distaccata da tutto il resto, snobbava l?affollamento del Cjaval, la cima Dodici, la più frequentata e famosa di quel gruppo; concedeva solo stancamente una mano alla pur turistica Cima Dieci attraverso una lunga e affilata cresta impercorribile.
Gli impressionanti lastroni della Cima Nove fotografata 3 anni fa dalla vetta della Cima Dieci
Cercando in rete ho poi trovato che quella Cima Nove, o Sasso delle Nove, è accessibile partendo dalla parte opposta, ovvero dallo Ju de Sant?Antone; ma la descrizione della salita è sommariamente riportata solamente in un sito ladino, come se di quella cima non se ne volesse parlare troppo in giro.
Quest?anno ho finalmente deciso di chiudere la questione tentandone la salita.
Decido di partire dalla Capanna Alpina situata in una valletta laterale ai piedi del Piz Cunturines, alla base dei tornanti che salgono al Passo di Valparola.
Mi trovo sul luogo alle 7.20. C?è un parcheggio a pagamento, con tanto di sbarra e ticket: 5 euro al giorno.
La giornata è splendente, fa un freddo sano, 5 gradi finalmente giusti per la stagione a questa quota (m. 1.726). Li respiro con consolazione dopo la tanta fastidiosa, sciroccale untuosità di questa estate anomala.
Mi avvio per la salita che conduce verso il regno incantato dei Fanes.
Il Gran Plan nell'ombra mattutina
Dopo un prima rampa di 400 metri entro nel Gran Plan, una amplissima e verde spianata sui 2100 di quota. Un pascolo incantato ancora in ombra a quest?ora. In terra la brina testimonia i rigori notturni. Il sole mi inonda solo allo Ju de l?Ega (m. 2.143), il punto culminante di questa romantica vallata.
Il bel vallone laterale che dallo Ju de l'Ega sale verso Piz Cunturines e Piz Lavarela
La stradella è adesso in discesa, la via è lunga e sembra non finire mai, perché io sono fatto così: datemi un dislivello qualsiasi da risalire e per me sarà un piacere; se mi volete uccidere datemi invece una lunga strada piatta. Però questa oggi me la sono scelta da solo, dunque non so con chi prendermela. Fatto sta che la seconda ora di questo cammino mi pare davvero interminabile. E dallo Ju di cui ho detto è praticamente tutta discesa fino al rifugio Lavarela (m. 2.042) che vedo per la seconda volta dopo ben 41 anni dalla volta precedente.
Il rif. Lavarela in basso. In alto a sinistra la Cima Dieci e a destra la Cima Nove
La precedente volta, infatti, ci passai nel 1971 con 3 amici, ai tempi della Alta Via n°1. Ricordo che dormimmo sull?erba coperti da mantelline impermeabili militari, entro sacchi verdi militari pesantissimi e freddi, tra le proteste mattutine delle vacche che ci trovarono a occupare abusivamente il loro pascolo.
Appare finalmente in lontananza la mia Cima Nove: dio quanto è ancora lontana! Però finalmente fra poco si sale, 900 metri belli e tosti mi aspettano.
Mi rabbocco di energie con uno strudel e un cappuccino al rifugio; ormai anche la spaghettata al pomodoro e tonno con la quale mi sono corroborato appena svegliato stamattina alle 5.30 è pronta a dare la sua energetica collaborazione allo sforzo che mi attende.
Mi incammino verso lo Ju de Sant?Antone lungo un enorme pascolo costellato di vacche e marmotte. Una marmotta sentinella mi avvista e fischia, ma senza convinzione.
Marmotta di sentinella
Qui le simpatiche bestiole sono tutte già belle grasse, pronte per affrontare un nuovo inverno. Si fanno avvicinare con facilità tanto da farsi fotografare. E pensare che da queste parti le spremono come olive per farne olio! (visto qualche tempo fa in un supermercato dell?Alto Adige; per massaggi antidolorifici, se ben ricordo?). Farei dunque loro migliore servizio se le spaventassi a morte, dovrebbero imparare che gli umani sono brutta gente e vanno solo evitati.
Allo Ju de Sant?Antone (m. 2.466) giungo dopo 1 ora dal rifugio (3 ore totali nette, senza contare le soste) dopo un percorso a dir poco sahariano quanto a tipologia del luogo e del clima. Ma il mio equilibrio idrico è ancora perfetto e non ho ancora toccato la riserva che porto con me.
Bizzarre forme rocciose lungo il sentiero che conduce allo Ju de Sant'Antone
Oltre lo Ju il sentiero scende verso il paese di La Valle ? Wengen in tedesco -, l?unico in grado di utilizzare le varie cime di cui ho parlato (9, 10 e 12) per regolare i propri orologi, proprio in virtù della posizione geografica di cui gode.
Lo Ju de Sant'Antone, punto di partenza per la salita alla Cima Nove
La discesa oltre lo Ju de Sant'Antone verso il paese di La Valle - Wengen
Allo Ju un cartello attesta finalmente che la salita alla Cima Nove inizia veramente da lì.
Salgo per una traccia incerta sul ripido fianco del monte tra i soliti sfasciumi, ghiaino instabile, blocchi mobili. Ogni tanto qualche reticente minuscolo bollo rosso mi dice che sto sulla via giusta; non si può certo dire che la segnaletica sia qui sovrabbondante. Vedo un paio di persone in alto, molto avanti a me, salire per la stessa via.
Arrivato a rimontare la schiena del monte ecco un grosso ometto segnare un punto di svolta. Da quel punto in poi la salita segue il verde dorso del monte e non ci si può più sbagliare.
Dalla schiena erbosa, uno sguardo sulle stratificazioni rocciose del lato NE
La lunga cresta che unisce Cima Dieci e Cima Nove
Giunto a una rocciosa anticima ecco il punto chiave. Da qui inizia una crestina rotta ed esposta che conduce fino al punto in cui iniziano le prime corde d?acciaio. Niente di difficile, praticamente si cammina appoggiando solo occasionalmente le mani, però chi non fosse avvezzo a cose di questo tipo potrebbe venire colto da qualche perplessità.
E poi si arriva alle corde che attraversano la sommità di lastroni impressionanti, gli stessi che avevo avvistato 3 anni fa da lontano e che mi avevano stregato. La loro inclinazione è sconcertante, le loro linee diritte quasi tagliate col coltello sottolineano a dismisura il senso della verticalità.
Le prime corde d'acciaio della cresta attrezzata
Uno sguardo alla parete NE
La ferrata non è difficile ma l?ambiente è sicuramente impressionante e per chi non fosse abituato? beh è un posto che non gli consiglierei. Io però, che a cose del genere son già avvezzo da un pezzo, dopo aver coscienziosamente inforcato l?imbrago attrezzato con cordino, fettucce, moschettoni con ghiera e dissipatore, compio i successivi passaggi aerei con grande soddisfazione. La roccia è bella solida e dà piacere afferrarla.
L'inclinazione esasperata dei lisci lastroni sottostanti la cresta attrezzata
Attraversato questo punto la cresta riprende a essere bella larga, e la croce di vetta è facilmente raggiungibile. Dallo Ju de Sant?Antone ci ho messo 1h45m.
In vetta
In cima trovo due ragazzi, due ragazze e un anziano signore. Si capisce dalle parlate che sono tutti gente del luogo. Uno dei ragazzi, dall?aria vagamente rasta, estrae uno zufolo colorato e intona una strana melodia nel silenzio assorto degli altri. Sarà forse un rito alpino ancestrale? O magari un?usanza di importazione asiatica? Non so, ma la cosa mi pare simpatica e adatta all?ambiente. Molto meglio questo che la ?caciara? sempre presente sul Cjaval (tengo a precisare che l?uso di un termine romanesco è stato qui puramente casuale).
Presto i ragazzi scendono e resto solo in compagnia del maturo signore. Dopo un po? attacchiamo discorso. All?inizio l?uomo è laconico, appare un po? arrugginito in italiano, poi però si scioglie e tutto procede come se fossimo amici da anni. E? di Wengen, mi dice con un accento che tradisce il gruppo linguistico tedesco cui appartiene, e sale lassù da uno sterminato numero di anni, anche da molto prima che la ferrata venisse costruita; adesso però non sa dire se l?anno prossimo ci potrà salire ancora, perché è arrivato ormai a 78 primavere, e queste si fanno decisamente sentire.
Considerata l?ora e la lunga strada che mi attende decido di scendere e saluto il veterano. Mentre sono impegnato in discesa sulla ferrata, percepisco sopra di me la presenza del cortese signore di cui sopra. Lo invito a passarmi pure avanti, cosa che lui fa, mentre con mio grande sbigottimento noto che non possiede ombra di imbrago, né di cordino, né di moschettone. S?attacca alla fune d?acciaio semplicemente con due mani, i piedi in opposizione alla roccia e va giù così. Una tecnica che mi pare francamente eccessiva, e mi chiedo: non sarà che la mia presenza lo ha portato a esibirsi? Ho i brividi, non vorrei proprio essere lì. La sua presa non mi pare neanche troppo salda e fluida, francamente credo che se l?anno prossimo decidesse di non tornare da queste parti avrebbe tutta la mia approvazione.
La discesa del veterano
Nel frattempo io vado giù più lento, impegnato in tutte quelle manovre di aggancio e sgancio, di passaggio sopra e sotto la corda e da una parte e dall?altra della cresta che la mia attrezzatura m?impone. Terminate le funi supero la parte in libera finale e arrivato sul prato dello spallone trovo il veterano che mi sta aspettando e mi chiede se va tutto bene. Forse ha interpretato la mia maggiore lentezza come indice di insicurezza e si è un po? preoccupato. Non gli dico che il preoccupato ero invece io per motivi opposti.
Scendiamo per il prato, stavolta sono io che devo rallentare, il suo passo è decisamente più incerto e prudente del mio. Teme un po? l?ultimo tratto della discesa, dice, quello su sfasciume perché è scivoloso. Però io lo posso evitare, dice, basta che continui per il verde e arrivo all?alpeggio del rifugio Lavarella schivando la zona scivolosa e abbreviando il percorso senza passare dallo Ju. Ma ne è proprio sicuro? Certo che lo è. Ma allora perché nel sito internet dicevano che bisognava salire per forza dallo Ju? Perché è più facile da scrivere, sentenzia.
Mi voglio fidare. Arrivati al grande ometto che segnala il punto di svolta ci salutiamo e io proseguo diritto verso spazi che davanti a me si aprono indefinitamente verso i monti cortinesi e, più vicino, su grandi pascoli costellati di calcarei campi carreggiati, negli anfratti dei quali avrò ben cura di non infilare sbadatamente una tibia.
Lungo la discesa sguardo nella direzione del rif. Lavarela
Giunto alla fine concludo che il veterano aveva proprio ragione: arrivo al rifugio per via diretta, tra la disapprovazione dei numerosi ruminanti che non vedono mai di buon occhio chi calpesta il loro pascolo esclusivo.
Ripenso a quell?uomo appena incontrato che non rivedrò probabilmente mai più. Una bella persona davvero come del resto ne ho conosciute ancora e come mi piace incontrarne in montagna; un testimone autentico del suo tempo e delle sue tradizioni, uno che preferisce salire 100 volte sulla ?sua? montagna piuttosto che una sola volta su 100 montagne straniere. Addio anziano signore, e mi raccomando: l?anno prossimo? ci siamo capiti.
Quanto all?ultima parte del ritorno devo solo parlare di sofferenza. La lunga camminata è una via crucis per i miei piedi intrappolati entro i pesanti ?Meindl? adatti ai terreni hard ma poco propensi ai lunghi trasferimenti piani. Avrei dovuto portarmi appresso le scarpette e cambiarmi al rifugio, mi dico. Ma non ci avevo pensato, perché questa è una cosa che non ho mai fatto. Da sempre, infatti, un comandamento scritto nella mia personale bibbia alpina impone ?non portare mai sulle spalle ciò che puoi indossare ai piedi?. Sarà però il caso che io riveda radicalmente questa mia religione, anche se sono certo che camminate come quella di oggi non le ripeterò tanto facilmente. Non tanto per il dislivello, che ho valutato in circa 1.550 metri di salita e altrettanti di discesa, dunque abbastanza nella media rispetto alle cose che faccio di solito, quanto piuttosto per i 14+14=28 chilometri di sviluppo, che solo un peccatore medioevale diretto a Santiago de Compostela e intenzionato a espiare le proprie colpe può pensare di percorrere coi ?Meindl? ai piedi.
Al ritorno, tra i romantici pascoli nei pressi dello Ju de l'Ega
Chuck Norris ha contato fino a infinito. Due volte.