da quilodicoequilonego » sab mag 08, 2004 14:36 pm
...riassunto dell'Odissea, che prima era sparita dalle relazioni ufficiali, per chi non la conosce ed ha voglia di leggerla:
L'8° campo è stato piazzato a quota 7627 e ci sono volute quattro ore per raggiungerlo. Nella discesa, durante una traversata a mezza costa, Gallotti rischia di finire tragicamente la sua avventura perdendo l'equilibrio a causa della neve incastratasi tra la suola degli scarponi e i ramponi. Una scivolata di quasi 70 metri rischia di farlo precipitare, ma fortunatamente la caduta si arresta e ora può quasi raccontare l'accaduto con un sorriso. All'alba del 29 luglio Bonatti si risveglia completamente (e quasi miracolosamente) ristabilito. Il tempo è splendido. Siamo ormai vicinissimi all'attacco decisivo. Il programma è questo: Lacedelli e Compagnoni saliranno fino a quota 8100, piazzeranno l'ultimo campo, il nono, costituito da un piccola tendina. Poi ritorneranno a passare la notte all'8° campo dove nel frattempo Bonatti e compagni porteranno altre due tende e le bombole d'ossigeno per permettere a Lacedelli e Compagnoni l'ultimo assalto. A loro volta gli hunzas saliranno dai campi inferiori con altro ossigeno, viveri e carburante. Appena partito, il gruppo di Bonatti deve già cambiare programma: Rey e Abram sono talmente debilitati da dover rinunciare immediatamente. Hanno già dato tutto quello che potevano dare, e ora non resta loro che scendere al campo base. I due si avviano barcollando verso il basso. Gallotti e Bonatti ripartono. Lo sforzo è penoso, e ad ogni passo la fatica diventa più dura. I due lasciano perdere l'ossigeno e decidono di trasportare, fatica immane in ogni caso, solo viveri e tende. Gallotti, pur provatissimo, dimostra una incredibile tenacia e segue Bonatti fino all'8° campo. Quando si ricongiungono a Compagnoni e Lacedelli, questi appaiono prostrati dalla fatica, e la situazione alquanto compromessa.
Da una breve discussione risulta l'unico piano d'azione che abbia ancora qualche chance di riuscita: Lacedelli e Compagnoni il giorno successivo saliranno a piazzare il nono campo, ma più in alto rispetto alla quota precedentemente stabilita. Bonatti e Gallotti scenderanno al settimo campo per risalire al nono con l'ossigeno, senza il quale sarebbe troppo rischioso superare quota 8000. Per Bonatti si tratta di fare 200 metri di dislivello in discesa e almeno 600 in salita nello stesso giorno: dislivelli che a quelle quote comportano sforzi sovraumani. La notte successiva saranno, se il piano funzionerà, tutti e quattro stretti nella piccola tendina sotto la vetta. Compagnoni, estremamente affaticato, fa balenare a Bonatti l'ipotesi di lasciargli il posto l'indomani. Ma è ancora presto per decidere chi dei quattro salirà fino in cima all'ancora inviolato K2.
E' il 30 luglio: l'alba sorprende i quattro con un cielo limpido che permette di ammirare un panorama meraviglioso, che abbraccia un orizzonte quasi infinito.
La vetta sembra a pochi passi. Ma la quota si fa subito sentire e la semplice operazione di calzare i ramponi richiede loro una buona mezz'ora. Bonatti e Gallotti cominciano a scendere e si separano dai compagni che si avviano in direzione opposta. Al 7° campo è giunto nel frattempo Erich Abram con Mahdi e Isakhan, due hunzas, con il carico del materiale. I cinque ripartono verso l'alto, ma la fatica è immane. In testa procede Bonatti, il meno provato. Seguono gli altri: Gallotti è ormai allo stremo, e le sue soste sono più lunghe dei tempi utili, ma eroicamente lotta metro dopo metro. Anche Abram procede facendo appello alle sue ultime risorse.
Quando giungono all'ottavo campo pure Isakhan non è più in grado di proseguire: sconvolto dalla fatica e dalla febbre, si lamenta come un bambino. Solo Madhi è in buone condizioni. Anzi, data la quota si può dire che è in ottima forma. Del resto fin dall'inizio della spedizione Madhi si era rivelato come il migliore degli hunzas, e ora lo sta dimostrando appieno. Bonatti tenta di convincerlo a proseguire con lui fino al nono campo tentandolo con l'ipotesi, in realtà ben difficile da realizzarsi, di essere tra quelli che toccheranno la vetta. L'orgoglioso Madhi accetta. Dopo aver mangiato qualcosa ed averlo equipaggiato alla meglio con gli indumenti di Gallotti ed Abram, i due ripartono seguiti dallo stesso Abram che si è offerto di accompagnarli il più in alto possibile, ovvero fin dove le forze lo sosterranno.
Sono le tre e mezza del pomeriggio, e rimangono meno di quattro ore di luce davanti a loro. Quattro ore di luce e una salita ai limiti delle capacità umane. Il freddo intorpidisce i muscoli, il peso degli zaini appesantisce l'andatura, la scarsezza d'aria tronca la respirazione (si suole dire generalmente che in alta quota l'ossigeno è scarso, mentre è l'aria -ossigeno compreso- ad essere rarefatta). Ogni tre o quattro passi essi devono fermarsi a riposare, ogni venti o trenta metri a scambiarsi i carichi più pesanti per non soccombere sotto lo sforzo. Un ora più tardi i tre hanno superato un tratto particolarmente ripido ed impegnativo, seguendo le tracce dei due compagni che li precedono al nono campo. Essi provano a chiamare Lacedelli e Compagnoni i quali, da un punto imprecisato più in alto, rispondono. Un'iniezione di gioia e di fiducia per i tre, sempre più sfiniti.
La tenda di Lacedelli e Compagnoni però non si riesce a intravedere. Bonatti e compagni seguono le loro tracce innalzandosi ancora per il pendio, ma senza riuscire a scorgere nulla. Chiamano ancora verso l'alto: una voce li esorta a seguire le tracce ed essi, ripresa fiducia, proseguono ancora. Passo dopo passo, sosta dopo sosta, i tre salgono inesorabilmente ma con enorme fatica, destreggiandosi tra pericolosi crepacci. C'è una grande roccia in cima al pendio di ghiaccio che i tre stanno scalando, e la tenda che rappresenta la loro salvezza deve trovarsi là dietro. Non si intravedono altri posti dove possano essersi accampati.
Salgono sempre più, ma dubbi e timori cominciano ad affiorare: la grande roccia, avvicinandosi, rivela le sue vere proporzioni (assai facili da smarrire in montagna, e tanto più in alta quota, dove si tende a perdere lucidità). Se ci fosse la tanto sospirata tenda, si rendono conto, si vedrebbe ugualmente, perché in realtà la roccia non è tanto grande da poterla nascondere completamente. Abram accompagna ancora per un tratto Mahdi e Bonatti, poi, ormai completamente sfinito, deve tornare indietro perché un principio di congelamento a un piede lo tormenta. I due dopo un saluto commosso lo vedono ripartire verso il basso e presto si ritrovano, ancora più soli, in balia della grande parete che li sovrasta.
Lo scenario è grandioso e terribile, e per un tratto di tempo indefinito essi rimangono come incantati, fuori della realtà. Si riscuotono, riprendono la salita, ma le tracce di Lacedelli e Compagnoni si fanno sempre più incerte, e sembrano scomparire nei pressi della grande roccia. Ancora più in alto una grande fascia di rocce rosse sbarra il cammino appena sotto la vetta del K2. E' l'unica altra zona in cui si può immaginare che Lacedelli e Compagnoni si possano essere accampati, ma sembra impossibile che siano saliti in una zona così difficile da raggiungere per i compagni che li seguono, per di più senza avvertire del cambio di programma.
Sono ormai le 18.30, la luce a disposizione è poca e il freddo si fa sempre più intenso. Bonatti chiama insistentemente Lino (Lacedelli) e Achille (Compagnoni), ma senza alcun esito. Mahdi comincia a dare segni di nervosismo e lo stesso Bonatti comincia a sentirsi addosso la paura. I due salgono spinti dalla forza della disperazione, con le spalle in preda a dolori lancinanti dovuti al peso delle bombole di ossigeno, che non possono nemmeno usare dato che non hanno con sé i respiratori. Gridano ancora. Nessuna risposta. I due si muovono con estrema difficoltà su un pendio ripidissimo e estremamente pericoloso, dove anche il fermarsi a riposare nella neve rappresenta un rischio enorme. Le tracce dei compagni che li hanno preceduti riappaiono a tratti, ma Bonatti non è più nemmeno sicuro che siano vere e proprie tracce.
La situazione si fa insostenibile, tanto che Bonatti d'improvviso getta le bombole d'ossigeno e con le ultime forze residue si inerpica per il canale di ghiaccio in cima al quale si trova la roccia dove dovrebbe esserci la tenda: anche se ne aveva già avuto il presentimento, la realtà lo lascia attonito. Non c'è alcuna tenda. L'emozione è violenta: una morte per congelamento è il destino che aspetta Mahdi e Bonatti. Ormai è tutto assolutamente buio, e non c'è la minima possibilità di tentare una discesa in queste condizioni. I richiami disperati dei due si perdono nell'oscurità più totale. Le urla di Mahdi sono impressionanti, la paura e la rabbia verso i compagni che li hanno di fatto abbandonati in quelle condizioni gli stanno facendo perdere la testa.Bonatti ha un'idea, ed è quella di raggiungere la fascia rossa di rocce risalendo direttamente il canalone di neve che li ha portati fino al punto in cui avrebbero dovuto trovare la tenda, evitando così una traversata del pendio che di notte si rivelerebbe pericolosissima. Ma Mahdi continua a urlare imprecazioni nella sua incomprensibile lingua e agita furiosamente la piccozza verso l'alto, come a voler minacciare un nemico invisibile. Ancora un richiamo disperato ai compagni riparati in qualche piega nascosta della grande parete, ancora silenzio. Mahdi è ormai fuori di sé, sopraffatto dalla paura e dall'eccitazione, e lo stesso Bonatti comincia ad essere terrorizzato dai gesti inconsulti che potrebbe commettere: non solo si trovano a quote in cui è difficile sopravvivere, ma soprattutto si muovono su un terreno pericolosissimo, dove un passo sbagliato può significare un volo mortale di centinaia di metri.
Bonatti dà prova di lucidità ed opta per l'unica, flebile possibilità di salvezza: scavare con la piccozza un bivacco, ossia poco più che un buco nel ghiaccio, e sperare di sopravvivere lì dentro alla notte himalayana. Si mette a scavare come un forsennato, nell'indifferenza apatica di Mahdi, che sembra ormai rassegnato al peggio.
Ma anche Bonatti sente di impazzire: ad un certo punto si sorprende a lanciare maledizioni contro Compagnoni e Lacedelli e a gridare a squarciagola che non vuole morire. Quando si risveglia dalla trance, Bonatti scopre di aver scavato un discreto ripiano sul ripido pendio. Vi si sistema assieme a Mahdi, che si è un po' tranquillizzato. Senza ormai più voce, e senza più alcuna speranza di ricevere risposta, lanciano gli ultimi richiami verso i compagni. Invece, incredibilmente, un voce. Questo il racconto di Bonatti stesso: "Ed ecco, incredibile, nel profondo silenzio, sulla cresta appena sotto la fascia rocciosa, si accende una luce. "Lino! Achille! Siamo qua! Perché solo ora vi fate vivi?" Con voce ben distinta Lacedelli si scusa, ma piuttosto crudamente. Conoscendo la sua indole buona, non voglio prendere sul serio il significato delle sue parole. Uno dei primi effetti che procura la rarefazione dell'aria è il nervosismo, l'irascibilità. In fondo, penso, anch'io poco fa mi sono scagliato contro di loro, insultandoli e maledicendoli. "Avete l'ossigeno?" riprende la voce. "Sì!" rispondo. "Bene! Lasciatelo là e scendete subito" "Non posso! Mahdi non ce la fa!" "Come?" "Ho detto che Mahdi non ce la fa, io posso arrangiarmi da solo, ma Mahdi è fuori di sé, in questo momento sta attraversando la parete!"
Mahdi infatti, accecato dalla rabbia verso i compagni e annebbiato dalla fatica e dalla mancanza d'aria, si lancia in una folle traversata del pendio in direzione della luce apparsa più in alto, gridando come un ossesso contro Lacedelli e Compagnoni. Quando le crisi di Mahdi si placano, egli torna al precario bivacco scavato da Bonatti. I due riprendono a chiamare i compagni, ma non ricevono più nessuna risposta. Racconterà Bonatti la sensazione che gli diede quella mancata risposta, proprio nel momento in cui la voce di Lacedelli gli aveva fatto credere di essere in salvo: "Sentii come un marchio di fuoco imprimersi sulla mia anima". Bonatti perdonerà e giustificherà, ma non riuscirà mai a dimenticare. O meglio, non accetterà che le verità ufficiali trattassero come un piccolo disguido, come qualcosa su cui sorvolare in nome della concordia nazionale, la terribile esperienza di cui sarà protagonista assieme a Madhi. La luce è sparita e il silenzio li avvolge di nuovo. Non c'è luna, ma milioni di stelle illuminano le vette innevate delle montagne circostanti, alcune delle quali sono tra le più alte del mondo. Una visione meravigliosa, se non fosse che il prezzo da pagare per goderne rischia di essere la vita stessa. Mahdi e Bonatti si stringono l'uno all'altro, ma il freddo è disumano, e per di più la posizione del bivacco è pericolosa, perché esposta in pieno alle valanghe e alle cadute di sassi e ghiaccio dalla parete sovrastante.
Ogni tanto Bonatti si accorge che una parte del corpo sta perdendo sensibilità e allora si costringe a reagire: sono molti gli alpinisti che al ritorno da una scalata (o un tentativo di scalata) himalayana hanno dovuto subire amputazioni, in genere alle dita delle mani o dei piedi, a causa dei congelamenti; ma qui la posta in gioco è ancor più di una mano: è la vita stessa. Il gelo è talmente atroce che anche il cervello sembra spegnersi in un torpore dal quale non ci si può lasciar vincere. A volte a Bonatti non basta massaggiare le estremità intorpidite, ed è costretto a picchiarle con forza con la piccozza.
"Questo è un metodo che oltre ad essere efficace per riattivare la circolazione del sangue, toglie anche ogni dubbio di stare vaneggiando per mancanza di ossigeno", commenterà poi Bonatti. Se comunque sopravvivere una notte in aperta parete, a ottomila metri e per di più senza ossigeno, era già un'impresa eroica, ecco che, come in un thriller, una folata di neve sbatte in faccia ai due scalatori. Poi un'altra, e un'altra ancora: presto una violenta bufera si abbatte sui due disgraziati, con turbini selvaggi che penetrano sotto i vestiti e costringono i due a proteggersi naso e bocca con le mani per non restare soffocati dalla polvere ghiacciata. Presto la neve sommerge la buca dove i due si riparano.
La lotta con la natura è atroce ed impari, e i due, ridotti ormai all'ultimo stadio, quello in cui prevale solo l'istinto primordiale di sopravvivenza, riscavano la buca infinite volte. Ognuno ormai lotta solo per se stesso, facendo appello alle ultime risorse, eppure Bonatti ha la prontezza di distinguere tra le urla assordanti della bufera un urlo umano e di allungare istintivamente un braccio verso l'ombra di Mahdi, proteso ormai verso il precipizio, spinto forse da un disperato istinto di tornare all'ottavo campo.
La situazione è disperata. Bonatti arriva a scavare un buco orizzontale nella parete giusto per ripararvi la testa, mentre la tormenta continua impietosa. Così descriverà Bonatti il placarsi della bufera: "Albeggia, il vento cala . Un mare di nebbie ricopre ancora tutto fino a poche centinaia di metri da noi. Il cielo via via ridiventa limpido e qualche stella ritorna a brillare nel cielo quasi chiaro. L'aria si è fatta immobile e di un gelo astrale. Quante ore sia durato questo inferno, non lo so. Comprendo solo che il mio corpo è come se non appartenga più a me stesso: non sento più i piedi, né le mani, le gambe non mi reggono e tutto il resto del mio corpo, in particolare le braccia, è scosso da un tremore continuo che non mi riesce di arrestare. E' molto che riesca ancora a ragionare."
Mahdi, come un automa, senza dire una parola, comincia a scendere barcollando. E' sfigurato dal gelo e Bonatti si domanda con angoscia se riuscirà a non precipitare. Quando, dopo soste ed esitazioni, Mahdi si ritrova in una zona meno pericolosa, al temporaneo sollievo di Bonatti si sostituiscono presto i sensi di colpa: la sera precedente, per dissuadere Mahdi dall'intenzione di discendere il pendio durante la bufera, Bonatti gli aveva fatto improbabili promesse di somme di denaro.
Eppure ora, dopo aver temuto tanto per la sua vita, Bonatti lo vede scendere da solo e comincia a dubitare delle scelte fatte. Ma ormai l'avventura è finita. Pur tra enormi difficoltà anche Bonatti ridiscende il pendio e raggiunge finalmente l'8° campo, la salvezza. In giornata arriverà la notizia dell'avvenuta conquista del K2, che sarà celebrata, non solo in Italia, come una grande impresa. Un'impresa in cui Bonatti e Mahdi hanno avuto, loro malgrado, un ruolo tutto particolare. Nei mesi successivi non mancheranno le polemiche, anche violente, sull'episodio. La retorica nazionale avrebbe messo volentieri la sordina ai diverbi tra Bonatti e Lacedelli e Compagnoni.
enzo
Avè rot le bale, basta spit 'n Dolomiti, tanto i cavan tuti...
In arrampicata, cosa c'è di più artificiale del trapano ?
VIA TUTTTTTT
It's all in your mind - Jim Bridwell