da batman » lun nov 29, 2010 19:22 pm
Robbè.
Non voglio invadere eccessivamente, ma dato che hai aperto un topic su cotanto argomento, mi vedo quasi costretto obtorto collo a postare qui un vecchio e puzzolente racconto...
Mount Rainier
Siccome l?America l?è lunga e l?è larga, si può permettere di contenere di tutto, e così oltre al Niagara, a Yosemite, ai pueblos dei navajos di Tex Willer, ai tram di San Francisco e ai grattacieli di tutte le parti, agli slums e alle ghost-towns, al Gran Canyon e al Little Big Horn, ai repubblicani e ai democratici, ci sono anche i vulcani. Come tutti i vulcani che si rispettano, anche i vulcani yankees hanno due caratteristiche che non li distinguono dagli altri vulcani.
La prima è che sono degli aggeggi poco affidabili e da maneggiare con cautela, che anche quando sembrano tranquilli sputazzano e sobbolliscono nei loro più profondi recessi, per cui uno non può mai essere sicuro che un giorno non decideranno di esibirsi in un grande spettacolo pirotecnico con relativo accompagnamento di scuotimenti tellurici e bombe puzzolenti e asfissianti di gas venefici e miasmi irrespirabili, oltre s?intende a torrenti di lava incandescente e gran quantità di lapilli e lapislazzuli più o meno infuocati sparati in giro con gran generosità balistica (vedi che cosa ti ha combinato il St. Helens una ventina d?anni fa).
La seconda caratteristica è che sono dei gran bei montarozzi abbastanza alti e abbastanza poco ripidi da risvegliare ataviche voglie di ascensione in individui propensi alle gioie spirituali e alle fatiche corporali dell?alpinismo facile, quello per capirsi che consiste essenzialmente nel legarsi con una corda, perchè così se c?è da finire in un crepaccio ci si finisce insieme, in omaggio ai sani principi della solidarietà alpina, e nel mettere un piede avanti all?altro per un numero incalcolabile di ore, operazione che può al più venire interrotta per sdraiarsi al buio su uno strato di pietre sistematicamente appuntite e trascorrere battendo i denti quella che viene tecnicamente definita una notte di bivacco.
Sotto questo profilo, e in particolare per quanto riguarda l?assoluta uniformità della salita, i vulcani si presentano con delle credenziali imbattibili, e quelli americani in modo speciale, visto che dilatano la loro monotonia su qualcosa come duemilacinquecento e passa metri di dislivello, cosa che esercita sull?homo alpinisticus un effetto del tutto paragonabile a quello delle sirene sui marinai del bel tempo che fu, e lo spinge ad affrontare il cammino delle vette incurante dei pericoli derivanti dai potenziali sputacchiamenti, scuotimenti e bombardamenti di cui sopra.
Consideri ora il lettore il seguente insieme di circostanze concomitanti:
1) il narratore di questa puzzolente vicenda, nonchè un nutrito gruppo di suoi amici americani, appartengono alla categoria di alpinisti sempre in cerca di cose difficili e, per questo motivo, sempre disposti a concedersi invece i piaceri delle cose facili;
2) nel particolare momento in cui si svolsero gli avvenimenti di cui qui si discorre, essi si trovavano appunto in uno di quegli stati d?animo che rendono particolarmente sensibili ai richiami delle sirene;
3) inoltre, per una serie di eventi che non è il caso di ripercorrere in dettaglio, essi si trovavano anche tutti insieme in quel di Seattle, città di mare e di marinai circondata però da boschi e montagne (come dire, Napoli in Norvegia);
4) dalla suddetta città di Seattle è facilmente raggiungibile, su confortevoli Chevrolet, Pontiac e simili, il parco nazionale del monte Rainier, la cui attrattiva principale è costituita, chi l?avrebbe mai detto, per l?appunto dal monte Rainier;
5) il quale monte Rainier è proprio, guarda la coincidenza, il più settentrionale dei vulcani della costa occidentale, nonchè quello che spinge la monotonia dei suoi pendii più in alto di tutti, fin oltre i quattromiladuecento metri o giù di lì;
6) per finire, nonostante Seattle sia città di mare e di marinai, non risulta che esso mare sia popolato da sirene al cui richiamo non mostrarsi insensibili.
Conclusione degna di monsieur de La Palisse: non ci restò che salire il Rainier.
Ora, bisogna sapere che la salita al Rainier comporta delle difficoltà particolari, legate al fatto che l?ascensione dura due giorni e richiede pertanto un bivacco all?aperto (non ci sono rifugi), e che gli americani sono - giustamente - molto attenti all?impatto ambientale provocato dalla pratica dell?alpinismo sui fragili ecosistemi dell?alta montagna, in particolare quando si tratta di una montagna all?interno di un parco nazionale. Il che significa che il primo passo verso la meta consiste nel recarsi presso l?ufficio dei rangers a registrarsi per la salita e ricevere le istruzioni, raccomandazioni e benedizioni del caso; e insieme alle suddette vi viene consegnata, con l?intimazione di farne buon uso e riportarla a valle debitamente riempita, una bustina di plastica a chiusura sigillata ?to collect and remove human waste?. Confesso che la cosa proiettò fin dall?inizio un?ombra sinistra sulla nostra progettata ascensione (per me, almeno: i miei amici non fecero commenti, ma sospetto che anche essi nutrissero alcune preoccupazioni).
A scanso di equivoci: sono assolutamente convinto che non insozzare gli ambienti che si frequentano sia elementare norma di buona educazione, che obbedire alla regola ?prendete solo fotografie, lasciate solo le vostre tracce? sia la giusta maniera di comportarsi, e che quindi sia gran bella cosa riportare indietro cartacce, lattine e quant?altro, lasciando i luoghi puliti. Ma la cacca? In linea di principio, d?accordo: ma avete mai provato a farla a quattromila metri, dieci gradi sotto zero, di notte e con la frontale che come di regola non funziona, su un pendio esposto e senza ripari con un vento gelido che tira da nord sollevando il nevischio e infilandolo in luoghi dove ne fareste volentieri a meno, e il tutto con una precisione che vi consenta di centrare una bustina di plastica dell?apertura di qualche centimetro? Quest?ultimo elemento, ne converrete, è di rilievo capitale: potrebbero almeno farle un po? più grandi, queste maledette bustine. Risparmiando in tal modo sul materiale, il National Park Service ha posto tutte le premesse perchè si crei, in senso metaforico e letterale, una situazione di merda.
Su dunque per il monte un passo dopo l?altro per i primi millecinquecento metri di dislivello, con gli zaini carichi di tende, sacchi a pelo, fornelli, viveri, ramponi e bustine, aspettando e paventando l?arrivo del momento fatale; che non tardò a presentarsi, con puntualità degna di miglior causa, durante la preparazione del cosiddetto bivacco, su un pendio tipicamente vulcanico di neve e pietre, esemplare per la sua nudità ed assenza di rilievi. Fu subito chiaro che i brontolii e i gorgoglii che si intrecciavano con quelli della minestra che si scaldava sul fornello non venivano dalle viscere del vulcano, ma da viscere assai più prossime alla mia più profonda natura, e che l?ora delle grandi decisioni era dunque giunta.
A circa cento metri dalle tende, si ergeva sul pendio spazzato dal vento un possente masso alto circa sessanta centimetri. Al provvidenziale quanto improbabile riparo offerto da cotanto usbergo, mi ritrovai dunque, mentre la notte calava pietosa, accovacciato sul pendio, ?con tutto l?immenso stato di California ai miei piedi? come Jack Kerouac nei Vagabondi del Dharma (in realtà lui vedeva la California perchè era in cima al monte Shasta, vulcano differente dal mio da cui invece si vede l?immenso stato di Washington, ma questo allora non mi preoccupava più di tanto), solo con la mia bustina e la mia coscienza.
Ho frettolosamente seppellito sotto un mucchietto di sassi la mia coscienza, insieme a quanto di me ho abbandonato sul Rainier, e mi sono ritirato in tenda a trascorrere una notte agitata da incubi, popolati da ranger armati di pistola che mi inseguivano urlando mentre correvo pieno di vergogna a culo scoperto tra file di onesti cittadini rispettosi della legge che mi lanciavano addosso buste di plastica contenenti i più orrendi liquami. Il giorno dopo, la parte terminale dell?ascensione è stata un inferno: avevo mal di testa, non mi fidavo del mio compagno di cordata che continuava ad inciampare nei ramponi e che, ne ero sicuro, avrebbe finito per trascinarci entrambi giù per l?orribile colatoio ghiacciato che stavamo risalendo (ebbene sì, il vulcano aveva deciso di riscattarsi dalla sua monotonia e ci aveva riservato anche qualcosa che assomigliava a delle difficoltà tecniche, cosa che in altre circostanze sarebbe stata anche apprezzabile), abbiamo vagato per un?ora sul plateau sommitale cercando la vetta vera e finendo immancabilmente su un?anticima insignificante prima di correggere la rotta, e a tutto ciò si accompagnavano la consapevolezza del peccato commesso e il timore di doverne commettere uno nuovo, cosa che spostava pericolosamente la mia attenzione da quanto facevano i miei piedi a quanto faceva il mio intestino.
Fortunatamente, ulteriori violazioni dell?integrità ambientale non si resero necessarie. E, giunti finalmente sulla cima, potemmo sederci a scaldare almeno parte dei nostri corpi infreddoliti (quale parte, sarà del tutto ovvio al lettore a questo punto del racconto) sull?orlo di un grande crepaccio da cui fuoriuscivano bianchi vapori maleodoranti, segno inequivocabile della natura tuttora vulcanicamente attiva della nostra montagna, che si poteva sentire, porgendo attentamente l?orecchio, agitata nelle profondità da bombiti e scuotimenti. Lassù, gradualmente, ascoltando le voci del vulcano, tutto ha assunto una nuova e più confortante prospettiva: se lui, il vero signore dei luoghi, poteva permettersi impunemente di scoreggiare su grande scala ventiquattro ore su ventiquattro, la mia trasgressione poteva tranquillamente venire ridimensionata al rango di modestissimo peccato veniale. Certo, quelle del vulcano sono naturali attività spetazzatorie: ma non siamo anche noi parte della gran madre che tutti ci ha procreato e nutrito, mi dicevo vieppiù sollevato? Mai come in quel momento mi sono sentito parte integrante della natura circostante, accomunato da un afflato olistico e cosmico a tutte le puzze e le cacche dell?universo. E ho ritrovato la pace dell?anima (l?intestino, per fortuna, era in pace per conto suo).
La discesa è stata veloce e senza storia. In prossimità del parcheggio, ho raccolto dei pezzi di fango e li ho religiosamente collocati nella famosa bustina, che ho trionfalmente depositato nell?apposito raccoglitore. In fila indiana, uno dopo l?altro, altrettanto hanno fatto i miei amici. Non ho indagato sul contenuto delle loro bustine; ma ricordo distintamente che quando, durante la discesa, siamo ripassati in prossimità del pietrone che era stato testimone silenzioso delle mie tribolazioni, ho notato nelle sue immediate vicinanze la presenza di una quantità di ometti di pietre che la sera prima non c?erano.
Mi vengono in mente idee che non condivido (Altan)