da tacchinosfavillantdgloria » dom dic 20, 2015 12:54 pm
Dal blog di Antonio Armano:
Quando fu introdotta l’imposta comunale che va sotto il nome di
“Iciap”, un commerciante vogherese commentò: “Sono passati tanti
anni e dobbiamo ancora pagare la Ciap ciap!” Ciap ciap era uno dei
soprannomi che le prostitute si passavano di generazione in
generazione e coi quali passavano alla storia. Elvira Andreassi, che
“lavorava” a Milano e fu uccisa da un cliente “rifiutato”, entrò nella
mitologia del meretricio come Rosetta, grazie alla celebre canzone:
“Hanno ammazzato un angelo/ la povera Rosetta/ era di piazza Vetra/
battea la colonnetta”.
Ciap ciap, invece, “esercitava” in via Mazza Dorino, vicino al castello
visconteo, uno dei pochi, se non l’unico, esempio in Italia di via con le
prostitute “in vetrina”, ora ridotta dagli sfavillanti anni ’60 e ’70 al
lumicino, con solo due o tre donne in servizio e piuttosto mature e
anche male in arnese. Fiorita a partire dal 20 settembre ’58, quando la
legge che porta il nome della senatrice socialista Merlin chiude i
casini, intitolata, ironia della toponomastica, a un partigiano della
brigata Aliotta, caduto nel ’45, tutta case basse e oggi fatiscenti, via
Mazza è il corrispondente vogherese del quartiere a luci rosse di
Amsterdam e Amburgo.
Nel ’68, le tariffe erano queste: 1.500 lire in vestaglia, 2.000 nuda. Un
45 giri faceva da sottofondo musicale e da clessidra in vinile alla
copula. Erano gli anni in cui i “pacifisti”, cioè i ragazzi della
contestazione, prendevano in affitto case a basso costo da quelle parti
malfamate dove nessuno voleva abitare, e la “Dafne”, non molto alta e
bionda, si appassionava alle loro discussioni da intelligencija
oltrepadana partecipando ai collettivi, alle riunioni sui massimi
sistemi. (Va da sé che, secondo l’interpretazione marxista, una che
finisce col fare quel mestiere è vittima delle ingiustizie del
capitalismo, corpo del reato di sfruttamento da parte della borghesia,
versione sessuale della sottomissione delle classi proletarie a quelle
che stanno sopra, e che in una società comunista mai potrebbe esistere
non già, o non solo, per divieto di legge ma per fisiologica mancanza
di offerta, per emancipazione dal bisogno eccetera).
Una porta di legno, chiusa quando c’era il cliente, dava su un piccolo
atrio con un’altra porta, questa volta a vetri, attraverso cui filtrava il
riflesso rosato di un paralume, secondo il tentativo di ricostruire
l’atmosfera soffusa, per dirla col Giancarlo Fusco di Quando l’Italia
tollerava, tra profumi, bambole e ninnoli di gusto piccolo-borghese.
Alcuni oggetti dell’arredo si sono rinnovati, uno Swatch gigante da
muro, per esempio, ha sostituito il cucù; altri sono rimasti, come un
tombolo che raffigura Gesù a punto croce, e una bacheca fitta di
boccette; i prezzi si esprimono in euro; le luci si sono asetticamente
ingiallite; nella stanza lillipuziana, da casa della Barbie, da trullo hard
core, un letto gigante occupa sempre tutto lo spazio. Secondo
un’inchiesta del giornale Voghera Sette, nato e morto verso la fine
degli anni ’60, una prostituta, lamentandosi che i preti rifiutavano di
benedire le case di via Mazza, disse: “Questi ipocriti! Come se non ce
ne fossero tra i nostri clienti!”
Ma una rievocazione non sarebbe completa senza ricordare il fasto
della “Munsesa”, la Monzese, la storia tragica della “Biancona”, e
quella di “Gnuf Gnuf”. Alta, bionda, un tipo alla Mae West, la più
bella di sempre, la più bella di tutte, la Munsesa talvolta usciva in
mezzo alla strada per mostrarsi in tutto il suo splendore ai potenziali
clienti, forestieri dei paesi limitrofi perlopiù, sulle note di un disco di
Gene Pitney. “Tu sei bella come sei…”.
Per sposarsi dovette pagare il protettore, Gabri, una specie di gangster
di Romagnese, il cui fratello, detto “Pas-gat”, Pesce-gatto, per via dei
baffetti, commerciava in stoffe rubate e venne ucciso durante una
rapina. Per farsi fare l’acconciatura e il velo dalle modiste del miglior
negozio della città, in via Emilia, la Munsesa mandò prima una
persona a chiedere il permesso di entrare, una forma di rispetto da
paria in versione porno che oggi sarebbe inconcepibile. Si dice abbia
sposato un ingegnere e si sia rifatta una vita nel tortonese dove
gestisce un ristorante.
“La gente banale – ha scritto Gianni Brera nel Corpo della ragassa –
taccia le puttane di grossolana idiozia, per avere sempre un lenone che
le sfrutta. In verità, le sole di loro minimamente felici sono quelle che
mandano i soldi a un uomo chiunque egli sia. Così facendo si sentono
vive e non proprio affogate nella professione”. Salernitana pettoruta,
la Biancona faceva la vita per pagare i vizi al figlio, e quando a questi
fu diagnosticata una cirrosi, lei impazzì e prese a passare i pomeriggi
al caffè Portici, in piazza del Duomo, mangiando gelati su gelati e
piangendo senza ritegno, vestita anni ’30 con vistosissimi cappelli.
Una notte ebbe un ictus e il figlio, parecchio malandato, riuscì a
chiamare l’ambulanza. Usciranno insieme dall’ospedale, coi piedi in
avanti, come si suol dire.
Gnuf Gnuf, figlia “traviata” di una maestra, chiese aiuto, per “venirne
fuori”, per uscire dal giro, ai preti e, prima di trovare impiego come
bidella, fece volontariato all’ospedale, dando assistenza ai malati. Il
fratello d’una paziente, noto clerico-fascista, già autista di gerarchetti,
riconosciuta la Gnuf Gnuf, invitò la sorella a non accettare di essere
imboccata da lei. “Con quelle mani, chissà che ha toccato!” sentenziò.
Negli anni ’80, a parte il sussulto dovuto all’assassinio di Rosy
Bandera, detta Bandera Rosa, una del giro, peraltro avvenuto altrove,
fu solo un lungo languire, mentre si vociferava di una morte per aids,
segno dei tempi, e le poche che restavano, quando passava qualche
curioso proprio quando loro stavano uscendo a farsi un caffè,
dicevano: “Torniamo subito: andiamo a prendere i preservativi, con
questo movimento di clienti!”…
da Vip, Voghera important people (2005)
Ultrapadani saluti
TSdG