l'alpinismo d'antan - i miei ricordi

Arrampicata e alpinismo su roccia in montagna

Messaggioda danielegr » ven ott 16, 2009 12:11 pm

climbalone ha scritto:Da come li descrivi sembra che con il tempo i gradi si siano ammorbiditi. Secondo te è così? O forse si sono solo perfezionate tecniche e materiali?

Scusa il ritardo nella risposta: ho avuto problemi con l'ADSL. Credo che siano entrambe le cose, sicuramente i gradi si sono stemperati in una scala più lunga, ma altrettanto sicuramente l'evoluzione della tecnica e dei materiali ha avuto una grossa importanza.
De resto questo c'è sempre stato: quando Tita Piaz aprì la sua via sulla Punta Emma (1899, se ricordo bene) la via segnò un salto di qualità nell'arrampicata dolomitica: era considerata al massimo livello di difficoltà. Oggi è considerata una via fra il terzo e il quarto grado.
Una curiosità circa quella via: Piaz l'aprì insieme a Emma Dellagiacoma, cameriera in un rifugio della zona. Emma si fece pregare alquanto per acconsentire all'impresa, e acconsentì solo quando Piaz le permise di fare la salita... in sottana!! Emma non voleva assolutamente mettere i pantaloni.
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Messaggioda crodaiolo » ven ott 16, 2009 13:02 pm

danielegr ha scritto:... quando Tita Piaz aprì la sua via sulla Punta Emma (1899, se ricordo bene) la via segnò un salto di qualità nell'arrampicata dolomitica: era considerata al massimo livello di difficoltà. Oggi è considerata una via fra il terzo e il quarto grado.
Una curiosità circa quella via: Piaz l'aprì insieme a Emma Dellagiacoma, cameriera in un rifugio della zona


scusa daniele, ma...
un conto è la via normale alla punta Emma, aperta sì con l'omonima musa/pulzella al seguito,
altro è la famosa fessura, che ancora oggi è valutata di V°grado:
quest'ultima "il diavolo" l'aprì in SOLITARIA (seppur al secondo tentativo) e con tanto di platea sottostante (leggi testimoni oculari...),
a tutt'oggi qualcosa di più che una delle tante "Leggende dei monti pallidi"... :roll:
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Messaggioda danielegr » gio ott 29, 2009 18:54 pm

Una gita (chiamiamola così) agli inizi, ma proprio agli inizi della mia passione per la montagna, quindi probabilmente era il 1955. Con un amico, Giovanni L., che era stato mio compagno di scuola fin dalle medie, e poi compagno di banco all'Istituto Tecnico, ci eravamo ritrovato colleghi al lavoro. Gli stavo attaccando la passione per la montagna. La prima volta ci iscrivemmo a una gita organizzata dal CAI di Milano che avrebbe dovuto prevedere la Traversata Alta in Grigna. La gita non si poté completare per le condizioni del tempo, acqua tutto il giorno, e ci fermammo alla Capanna Rosalba. Lì ebbi il modo di conoscere per la prima volta il Pompeo Marimonti, del quale ho già parlato, e di infiammarmi ancora di più nel sentire i suoi racconti sulla montagna. Quindi, tornati a casa bagnati fino al midollo ma sempre più ?infuocati? incominciamo a pensare a nuove imprese. La meta più abbordabile l'abbiamo individuata nella Presolana, e, chissà in base a quali elementi abbiamo deciso che noi eravamo in grado di fare vie di terzo grado (beata incoscienza...). Quindi, guida alla mano, incominciamo a discutere: questa non mi piace perchè... quell'altra è un po' troppo difficile, quell'altra ancora è invece un po' troppo facile. Avevamo preso in considerazione addirittura una via sul versante Nord, la Bendotti (se ricordo bene il nome).
Non ricordo che via avessimo deciso di fare, muniti della nostra corda da 25 metri, dodici millimetri, in canapa (pesava un'iradiddio): comunque partimmo baldanzosi e arrivammo, bene o male, a quello che al nostro occhio sembrava essere l'attacco della via, a circa un'ora, un'ora e mezzo dal Passo della Presolana al quale eravamo arrivati (occorre dirlo?) con la mia mitica Lambretta.
Probabilmente l'attacco è un po' più a destra, direi: Giovanni, vai avanti tu a vedere se è così. Giovanni parte deciso, ci sarà da fare un breve traverso, sei o sette metri, a un'altezza di un paio di metri, non di più: non è ancora il caso di legarci.
Però Giovanni scivola su un appoggio e cade in piedi sul fondo del canalino. Un salto, come ho detto, di un paio di metri o poco meno, sufficiente a fratturargli una caviglia.
Naturalmente abbandoniamo l'impresa: Giovanni non riesce a appoggiare il piede (mi pare il sinistro) e dobbiamo arrangiarci: la discesa è un tormento. Aiuto come posso Giovanni, gli faccio in pratica da stampella per evitargli di appoggiare il piede ferito, ma credo che il poveretto abbia sofferto le pene dell'inferno (un po' di tempo dopo ho provato anche io qualcosa di simile scendendo dallo Zuccone di Campelli, come ho già raccontato un paio d'anni fa).
Ci abbiamo messo un sacco di tempo, per fortuna l'incidente era avvenuto al mattino abbastanza presto, ma alla fine arriviamo al passo Presolana stanchi, sudati, doloranti (Giovanni per la frattura, io per la fatica fatta a sostenerlo). Il ritorno in Lambretta non è stato complicato, ma credo che per Giovanni la cosa più difficile sia stata salire fino a casa sua, mi pare fosse al quarto o quinto piano senza ascensore con la caviglia in quelle condizioni.
Poi l'ospedale, un'operazione alla caviglia per la riduzione della frattura con l'inserimento di un chiodo, l'ingessatura ecc. ecc.
Non ha più potuto andare in montagna, anche per la fiera opposizione dei familiari, però è guarito perfettamente, e anche in un tempo relativamente breve.
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Messaggioda danielegr » lun nov 09, 2009 14:11 pm

Si potrebbe intitolare ?l'imprudenza e l'incoscienza non ti abbandonano mai, anche se ti credi un esperto?.
Eravamo in quattro o cinque, tutti istruttori della Parravicini e tutti quindi piuttosto esperti. Avevamo deciso di fare una puntata al Rifugio Allievi, in Val di Mello. Doveva probabilmente essere una puntata esplorativa (non ricordo esattamente che meta avessimo) : infatti avevamo un'attrezzatura ridotta, un paio di picche, qualche chiodo perchè non si sa mai ma non mi pare proprio che pensassimo a qualche via particolare.
Arriviamo quindi in val Masino, a San Martino e ci incamminiamo. Da San Martino all'Allievi ci sono, se ricordo bene, un bel cinque ore si marcia, anche se il dislivello dovrebbe aggirarsi intorno ai 1300-1400 metri. Si parte quasi in pianura per un bel po' attraversando anche qualche isolatissimo gruppo di casupole (sto parlando del 1960 o 1961, immagino che adesso le cose siano cambiate parecchio). E qui, probabilmente ho fatto il primo errore probabilmente sbagliando la cadenza del passo nella parte in quasi-pianura: quando il sentiero ha incominciato a salire più decisamente avevo le gambe già tagliate. Poi sono andato sempre peggio, era anche diventato buio e non ce la facevo quasi più. Le cinque ore previste minacciavano di allungarsi...
Cosa mi ha dato la forza di proseguire? Probabilmente l'offerta da parte di uno degli altri compagni di portarmi lui lo zaino visto che ero proprio spompato. Mi ha dato una frustata di energia, non avrei potuto permettere ad un amico di caricarsi anche del mio zaino perché ero una mezza pippa. Così, con un po' di buona volontà siamo arrivati all'Allievi: meno male perchè ero proprio distrutto.
Cena e poi a nanna. Al mattino dopo eravamo parecchio più vispi e pronti a partire... sì, ma verso dove? Boh, tu hai qualche idea? Una cosa non lunga però, perchè ci siamo alzati tardi e quindi non possiamo pensare a cose complicate. Chiediamo al custode che ci indica una meta possibile, vista l'ora. Saliamo quindi per una crestina, parzialmente innevata. Niente di speciale, niente di difficile, abbastanza divertente. Giusto una di quelle salite che si fanno per sgranchirsi le gambe e per non rimanere chiusi in rifugio quando c'è bel tempo. E per la discesa? Rifare la stessa strada? Ma no, guarda lì quel bel canalone innevato, scendiamo da lì e facciamo prima...
Possibile che a nessuno dei quattro o cinque istruttori sia venuto in mente che un canalone innevato, esposto a sud, alle due del pomeriggio possa scaricare? Sì, è possibile, infatti nessuno di noi cosiddetti ?esperti? ci ha pensato e siamo scesi allegramente. Naturalmente a metà del canalone è partita una slavina di superficie che ci ha tirato giù tutti. I miei compagni che erano un po' più in basso e dove la pendenza si attenuava se la sono cavata abbastanza a buon mercato, ma io che mi ero attardato, non ricordo perché, ho avuto più problemi. Innanzi tutto la slavina mi aveva fatto rovesciare: testa in basso e pancia sulla neve e andavo a notevole velocità verso gli spuntoni di roccia che chiudevano il canalone. Fortunatamente ero riuscito a conservare la mia lucidità e a capire che se non avessi fatto qualcosa in fretta quelle roccette mi avrebbero potuto fare veramente male (la testa era in basso, quindi nella posizione meno favorevole ad una frenata). Sono riuscito frenando e dirigendomi con il palmo delle mani a ruotarmi, fino ad avere la schiena sulla neve e i piedi in basso a mettermi in una posizione meno pericolosa (beh, rompersi una gamba è sempre meglio che rompersi la testa...) e poi ancora frenando e dirigendomi, però questa volta con i talloni, a evitare le roccette e a fermarmi dove la pendenza si attenuava.
Non vi dico in che condizioni erano i palmi delle mie mani, usati per frenare!! Però poi sono guariti in fretta
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Messaggioda danielegr » dom dic 27, 2009 17:23 pm

Può essere interessante conoscere come si faceva la ?sicurezza? negli anni '50 e '60? Non esistevano tutti quegli attrezzi di cui sento parlare in questo forum, secchielli, imbragature eccetera. C'era la corda e basta. E allora, come ci si metteva in ?sicurezza??
Cerco di spiegarmi con le parole, non sono capace di disegnare e non ho trovato nessuna foto dell'epoca.
Innanzitutto ci si legava, usando uno dei nodi più comuni: il ?nodo delle guide?, o il Bulin, oppure il ?nodo doppio delle guide?, o il Bulin a doppia bretella.
Questi ultimi due nodi avevano il vantaggio di non passare la corda solo in vita, ma di ripartire lo sforzo su tutto il torace. Però portavano via un sacco di corda, soprattutto il Bulin a doppia bretella e quindi si usavano solo in rare occasioni. Anche sulle salite impegnative nelle quali si usavano due corde si preferiva fare un Bulin semplice con una corda e un altro Bulin con l'altra (questo perché se si fosse presentata la necessità di slegarsi da una corda per aggrovigliamenti vari,almeno si sarebbe restati in sicurezza con l'altra
E' appena il caso di precisare che non esistevano ancora le imbragature: la corda doveva supplire a tutto. Quindi bisognava stare attenti al nodo: non troppo stretto altrimenti avrebbe dato fastidio, non troppo largo altrimenti non avrebbe potuto garantire la tenuta. Era buona norma che il compagno di cordata controllasse la regolarità del nodo dell'altro. Oltre alla corda spesso si usava anche un cordino (lo chiamavamo ?cubietto?) anche lui legato in vita. A cosa serviva? Innanzi tutto era una riserva di corda che avrebbe potuto essere utile in caso di incidente, per esempio per risalire la corda principale per mezzo del Prusik oppure, sempre come Prusik, per sicurezza nelle discese a corda doppia. Alcuni preferivano agganciare la ferraglia (moschettoni, chiodi, staffe ecc.) a questo cordino anziché alla corda principale.
Praticavamo la ?sicurezza a spalla?: chi era nel punto di sosta passava la corda o le due corde di arrampicata sopra la spalla a monte e sotto la spalla a valle. Puntava la gamba a valle contro un qualsiasi ostacolo e irrigidiva la gamba cercando di fare in modo che la linea dalla spalla a monte alla gamba tesa fosse una retta. Ovviamente si assicurava in proprio passando la corda di arrampicata in un chiodo oppure facendo un cappio su uno spuntone di roccia; qualcuno preferiva usare per questa sicura il ?cubietto? , guadagnando così un po' più di corda. In caso di volo del compagno lo sforzo si sarebbe così distribuito su tutto il corpo, la corda avrebbe fatto attrito sulla schiena e aiutato a frenare la caduta. La sicurezza fatta dal primo sul secondo era molto efficace: lo posso dire per esperienza essendomi ?volato? il secondo sullo Spigolo del Fungo, in Grignetta: nessuna fatica a trattenerlo ed è stato molto semplice anche calarlo fino alla base. Logicamente la sicurezza fatta dal secondo sul primo era molto meno semplice, la corda avrebbe fatto attrito sulle mani scorrendo e avrebbe portando via pezzi di pelle (visto sulle mani di un'amica che, appunto, aveva tenuto il volo del suo primo di cordata ? per la cronaca: i due poi si sono sposati).
Leggo da qualche parte, probabilmente Wikipedia, che la sola corda annotata in vita potrebbe essere dannosa in caso di volo del primo di cordata e potrebbe addirittura spezzargli la schiena. Per mia esperienza smentisco clamorosamente: sulla Cassin al Nibbio (sempre Grignetta) sono volato e sono stato trattenuto dal compagno senza nessun problema: non ho risentito dello strappo in nessun modo e ho ripreso immediatamente la salita senza problemi. Questo conferma che il nodo in vita era stato fatto bene. A proposito: un breve aneddoto su questa salita: è formata da tre tiri di corda: il primo e il terzo abbastanza semplici, i tiro di mezzo invece piuttosto duro e con dei tratti in artificiale (è proprio lì che sono volato per un paio di metri). Io e il mio compagno (non ricordo chi era: forse Tiziano N.) ci siamo giocati tirando una moneta l'onore di fare da ?primi? il tiro più difficile. Avevo vinto io.
Buon anno a tutti!!
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Messaggioda kala » dom dic 27, 2009 23:44 pm

Buon anno, Daniele :D

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Messaggioda danielegr » gio mar 25, 2010 10:40 am

Mi è tornata in mente quella che, se non ricordo male, è stata la mia ultima arrampicata: quindi direi Ottobre o Novembre 1961. Dopo di quella ho praticamente abbandonato l'attività in montagna (succede quando ci si sposa e si hanno figli) L'unica salita successiva che mi ricordi è stata il Canalone Porta, in Grigna.
Era già un po' di tempo che pensavamo che andare a ?fare? una salita in Svizzera, la cresta del Gallo, in Albigna, ma per un motivo o per l'altro non si riusciva mai a combinare.
Si saliva da Vicosoprano, un migliaio di metri di dislivello non faticosi per quanto ricordo e si poteva arrivare ad un rifugetto, mi pare fosse la Albignahutte. Curiosando su Google Earth vedo che adesso c'è una bella funivia che da Vicosoprano porta direttamente alla base della diga di Albigna. A quel tempo (sembra preistoria...) c'era già una teleferica, ma era utilizzabile solo per i materiali e, immagino, per gli operai della diga che era ancora in fase di completamento, pur essendo già agibile (vedo infatti su Wikipedia che la diga fu costruita nel 1959: quindi nel '61 era completata, ma le strutture, come ad esempio la funivia, ancora non erano agibili).
Sempre tramite Google Earth ho visto una foto del rifugio: niente a che spartire con quello che mi ricordo del 1961. Certamente con la messa in funzione anche per il pubblico della funivia il rifugio avrà avuto bisogno di una ristrutturazione e di un ingrandimento. Allora era solo una piccola costruzione, cioè una cucina, una specie di saletta e una camerata con le brande. Inoltre, dalle foto che ho visto sembra che il rifugio sia sulla sinistra idrografica del lago, mentre allora mi pare che fosse sulla destra. Il tutto era gestito da un donnone, sarà stata alta quasi due metri e con una stazza da far invidia a un lottatore di Sumo.
In quel (allora) rifugetto ci sono andato due volte sempre con obiettivo la Cresta del Gallo. Beh, la prima volta ho un po' di vergogna a raccontarla: in pratica abbiamo addirittura sbagliato montagna: invece di salire sul Gallo siamo saliti su quella prima, cioè la Vergine. Il bello è che non ce ne siamo accorti fino a quando non siamo arrivati quasi in cima, vedendo che alla nostra destra c'era ancora una vetta. Comunque anche lì è stata una salita abbastanza simpatica, su roccia discreta e qualche passaggio superato in modo assurdo (mi sono trovato a fare qualche metro in un diedro con la schiena verso la parete... era iniziato come un camino e non avevo trovato il modo di rigirarmi). Nella discesa verso Vicosoprano (ricordo un bellissimo bosco, mi pare di pini o abeti) abbiamo incontrato una guida svizzera che ci ha chiesto informazioni sulla salita, sulla qualità della roccia eccetera, dicendo che si trattava di una via nuova e che lui ci aveva pensato a lungo ma poi aveva rinunciato a tentarla perché gli sembrava che verso la fine ci fossero dei passaggi troppo difficili. Invece non era nulla di eccezionale, diciamo intorno al quarto grado.
Dal rifugio si risaliva un canalone ghiaioso (quello sì che era faticoso...) fino ad arrivare a un colle e da lì si scendeva sul versante opposto. Se ricordo bene si scendeva parecchio, almeno un 250/300 metri di dislivello, poi si costeggiava alla base la costiera di cime, alla fine della quale iniziava la cresta/parete del Gallo.

---- segue fra qualche giorno ----
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Messaggioda kala » gio mar 25, 2010 11:00 am

e che fai anche le puntate adesso? :?

:mrgreen:

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Messaggioda danielegr » gio mar 25, 2010 11:17 am

kala ha scritto:e che fai anche le puntate adesso? :?

:mrgreen:


Non ho finito di scriverlo... :oops: :lol:
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Messaggioda primularossa » gio mar 25, 2010 12:46 pm

......Mahh....io ti consiglierei di scrivere un libbbro...sarebbe molto meglio...l'alpinismo che hai praticato ...è interessante per tutti ...ho grande rispetto per quelli come TE!!
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Messaggioda adrianovskj » gio mar 25, 2010 13:40 pm

danielegr ha scritto: Beh, la prima volta ho un po' di vergogna a raccontarla: in pratica abbiamo addirittura sbagliato montagna


Capitato ache a me, una volta siamo andati a fare lo spigolo Dorn al Magnaghi Sett. e dopo due tiri con due spit a sosta e uno per tiro e arrivati in cima abbiamo visto il Sigaro e Il magnaghi davanti a noi.
Ho cercato diverse volte informazione sulla via fatta ma non ho mai trovato niente. In pratica era una delle piccole guglie a sud del sigaro
http://img95.imageshack.us/img95/6236/07portaxw1.jpg
http://lh6.ggpht.com/_0SLK1AtoCts/SjbPx_4sTsI/AAAAAAAAEMQ/tjgSXsEP_qk/Grignetta%20e%20Magnaghi-42.jpg
Ma non e que mi ha dato tanto fastidio, la via mi e sembrata carina, e ho imparato tanto.
Try again.
Fail again.
Fail better.
(Samuel Beckett)
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Messaggioda danielegr » sab mar 27, 2010 12:49 pm

Ci ho messo un po' a finire questa storiella perché ho cercato a lungo una foto della cresta ovest del Gallo (noto come ?Al Gal? nella lingua locale) ma non sono riuscito a trovarla. Pazienza, vuol dire che vi accontenterete delle parole. L'unica che ho trovato è questa, che però ritrae la parete che da direttamente sul lago, cioè quella di discesa. La salita è dall'altra parte.

Immagine


La seconda volta (era l'ultima uscita di stagione: sarà stata la fine di ottobre e ogni settimana si teneva d'occhio il tempo, sperando di avere ancora un sabato/domenica nel quale poter andare in montagna) eravamo in quattro: io e l'Angiolino (lo stesso dello spigolo Nord del Badile), Guido Della Torre e Alberto di B.
Non domandatevi perché di Guido ho messo per esteso nome e cognome mentre per gli altri mi sono limitato al solo nome di battesimo: gli altri sono ancora vivi mentre Guido è stato travolto da una caduta di seracchi nell'Agosto del 1974 sul Bianco. A lui è stata intitolata la scuola di alpinismo Guido Della Torre del CAI di Legnano (http://scuolaguidodellatorre.interfree. ... cuola.html ).

La seconda volta però non sbaglio montagna: ammaestrato dall'esperienza faccio continuare oltre l'attacco della Vergine e, finalmente, si arriva all'attacco del Gallo. Ci fermiamo un momento a discutere: un po' per stabilire l'ordine di partenza delle cordate, un po' per ammirare un gruppetto di stambecchi (o forse erano camosci?), un po' per ammirare il panorama verso la valle, un migliaio di metri più in basso, verso Bondo, Stampa e Vicosoprano.
Finalmente ci decidiamo e partiamo: davanti io e Angiolino, poi la cordata di Guido e Alberto. Caso mai ci daremo il cambio più avanti. Ci avevano spiegato, molto per sommi capi, la via da seguire e sapevamo che verso metà salita ci aspettava un camino, descritto come di grande difficoltà. La salita è ?pedalabile?, si sale senza problemi, la roccia (granito) è ottima e il sole splende. Arriviamo a una spalletta: sopra c'è un camino: che sia quello che ci è stato descritto come difficilissimo? Boh, a vederlo da qui non sembra poi così cattivo, Daniele, proviamo a vedere? Sì Guido, però è meglio se vieni su anche tu, così valutiamo meglio il proseguimento.
Infatti si sale senza eccessiva difficoltà ma, sorpresa, alla fine del camino si arriva ad una parete molto alta, verticale e che chiaramente presenterebbe delle difficoltà superiori a quelle che avevamo in preventivo. E' chiaro che non è quella la strada che dovevamo percorrere: bisogna tornare indietro. Scendiamo in libera e vediamo che in effetti, sulla destra, c'è una spalletta che sembra portare in luoghi più percorribili.
E' proprio così: un paio di tiri, se ricordo bene, e arriviamo al famoso camino.
Beh, questo sì che ha la faccia cattiva...
Comunque attacchiamo: provo io e quando a prezzo di notevoli sforzi sono riuscito a fare due o tre metri attacca anche Guido. E qui pronuncia la fatidica frase che, secondo me, porta una rogna incredibile: ?Sì, è difficile, però con una buona tecnica si può passare?. Appena detta, naturalmente (potenza della iella...) scivola e si ritrova a terra, senza farsi nessun male, ma condendo il tutto con espressioni un po' spinte. Per poco non scivolo giù anche io per la risata che non riesco a trattenere...
Comunque, alla fine, anche il camino è superato. E qui incomincia la faticata di tirare su quattro zaini che naturalmente si incastrano continuamente nel camino. Dopo non ricordo particolari difficoltà: una bella salita, non banale ma nemmeno troppo impegnativa, di quelle che si fanno in allegria e in perfetta sicurezza senza bisogno di chiodi o altri mezzi artificiali. La discesa poi me la ricordo come facilissima: mi pare che si potesse fare slegati scendendo sul versante opposto a quello di salita e arrivando sulla riva del lago artificiale dell'Albigna. C'è da dire che la parete sulla quale si effettua la discesa e che da direttamente sul lago è alquanto più corta di quella di salita, in poco più di mezz'ora o al massimo un'oretta si arriva tranquillamente alla diga.
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Messaggioda danielegr » dom apr 11, 2010 16:22 pm

Renzo Bigi, Luciano Carugo, Sergio Fasana e Angelo Ferraro : dicono qualcosa a qualcuno questi nomi? Probabilmente no: anche a cercarli su Google si ottengono dei risultati molto scarsi. Sembrano quasi dimenticati, il loro ricordo sembra affidato solo d una targa che, mi dicono, è esposta su un roccione vicino alla Capanna Giannetti in Val Porcellizzo (Fonte: http://www.webalice.it/massimodeicas/va ... llizzo.htm ). Cercando su Google ho trovato un Memorial di basket che è dedicato a Luciano Carugo, ma non ho la certezza che si riferisca alla stessa persona. D'altronde il nome Carugo è molto comune in Lombardia, e lo è anche quello degli altri tre. Ma chi erano questi ragazzi? Non li ho conosciuti personalmente, ho seguito la loro storia sui giornali e tramite il racconto di altri amici, ma ricordo ancora bene la tensione e la preoccupazione che si sentiva palpabile al CAI in quei giorni.
26 Aprile 1959: i quattro si accingono ad una impresa che in quel tempo tutti gli alpinisti lombardi sognavano (e che è rimasto uno dei miei sogni): lo Spigolo Vinci al Cengalo. Lasciano, come è buona norma, al custode del Rifugio l'indicazione su dove vanno, e i tempi previsti per il ritorno. Però il tempo peggiora, il Cengalo è avvolto dalle nubi, certamente c'è tormenta. Arriva sera e i quattro non ritornano. Vengono messe in allarme le squadre di soccorso che il giorno dopo partono. Fra i soccorritori c'era anche Romano Merendi, che sperava che i quattro, vista la tormenta, si fossero riparati in qualche anfratto e poi non fossero più stati in grado di proseguire, ma che fossero ancora vivi. Niente da fare: non si trovano da nessuna parte. Anche nei giorni successivi le squadre insistono nella ricerca, ripercorrono più volte lo spigolo, cercano in tutte le possibili varianti, ma non trovano traccia dei quattro. Sembravano inghiottiti dalla montagna. Solo dopo alcuni giorni si capì quale era stata la loro terribile sorte. I corpi furono ritrovati sul versante svizzero. Cosa sia successo con esattezza non si seppe allora e non si saprà mai. La ricostruzione che venne fatta è che i quattro alpinisti, storditi e disorientati dalla tormenta fossero andati in completa confusione, e, invece di scendere per la normale del Cengalo (l'avevo percorsa anche io mezzo secolo fa: non è difficile in condizioni normali: certo che con la tormenta in atto le cose cambiano e di molto) avessero tentato una discesa sul versante svizzero utilizzando le corde doppie. Pare che (e sottolineo il ?pare?) gettate le doppie, queste non arrivassero su un punto adatto alla sosta, ma che finissero in piena parete. La tormenta non permetteva certo di rendersene conto e il primo a scendere si sarà trovato in una situazione insostenibile: senza un punto sul quale fermarsi, sbattuto di qua e di là dal vento, avrà cercato di urlare, di farsi sentire dai compagni, di avvisarli che di lì non si poteva scendere, forse avrà tentato di risalire lungo la corda, fino a che le forze, già provate dalla salita e dal maltempo, lo hanno sostenuto. Poi si è lasciato andare. I compagni, sentendo che la corda doppia non era più in tensione avranno probabilmente pensato che fosse riuscito a trovare una cengia, un terrazzino, un qualcosa sul quale fermarsi. E, uno dopo l'altro avranno ripetuto le stesse cose: discesa, disperato tentativo di trovare qualcosa o di risalire. E poi anche loro avranno esaurito le forze.
26 Aprile 1959: è passato più di mezzo secolo, tra poco ricorrerà il cinquantunesimo anniversario e saremo in pochi a ricordarlo.
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Messaggioda crodaiolo » ven apr 16, 2010 16:42 pm

leggo solo ora... e rabbrividisco
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Messaggioda danielegr » lun apr 19, 2010 14:36 pm

Adamello per il Pian di Neve: anche questa una delle prime ascensioni. In che anno? direi 1956 o forse 1957. con il mi collega, amico e compagno di montagna, Alfredo, decidiamo che l'Adamello non deve sfuggirci. Quindi, un Sabato appena finito l'ufficio viaaaa ?. di corsa a cambiarsi, mangiare un boccone e partire alla volta della montagna, naturalmente sulla Lambretta (mi pare proprio che la Vespa fosse successiva: se avrò occasione di telefonare ad Alfredo me lo farò confermare).
Ma torniamo all'Adamello: Alfredo lo conosceva abbastanza bene, anche se da un altro versante, mentre per me era una delle prime esperienze in alta montagna. La piccozza, per esempio, me la ero fatta prestare da un amico, Franco, che mi aveva anche dato i primi consigli su come usarla, cosa fare su un ghiacciaio eccetera.
Qui ci starebbe bene una dotta disquisizione sulla piccozza, sua origine, evoluzione eccetera: un poveraccio come me si deve però limitare a cose molto più terra-terra.
Dunque incominciamo: la piccozza vera e propria è relativamente recente: nell'800 le guide usavano un alpenstock (cioè un normalissimo e lunghissimo bastone a un estremo del quale era stata applicata una punta in ferro o acciaio, serviva per piantarlo nella neve) e per scavare i gradini nel ghiaccio si portavano dietro un'ascia o un'accetta. Sì, proprio quella che usavano per spaccare la legna da mettere nel camino!

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Il disegno ritrae l'attrezzatura usata da Balmat per la prima ascensione al Monte Bianco: dovremmo essere nel 1786.

Successivamente si fusero l'ascia e l'alpenstock, ma la paletta della nuova piccozza continuava a rimanere verticale, come nell'accetta. Uno dei primi (o forse il primo) a usare questa nuova piccozza fu Whimper

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che vediamo appunto con una piccozza che ha la paletta verticale. Il manico, in legno naturalmente, rimaneva però esageratamente lungo, direi intorno ai 120-150 centimetri. In questa foto del 1875 (o 1879?) si vedono coabitare sia gli alpenstock che una piccozza, anche lei lunghissima sebbene mi sembra che la paletta sia già ruotata nella posizione alla quale siamo abituati oggi. Da notare che la becca della piccozza non aveva ancora la zigrinatura. Quella arrivò negli anni '20.
Ecco un secolo e mezzo di evoluzione della piccozza:

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Sta diventando un romanzo- fiume, andrò avanti nei prossimi giorni
Ultima modifica di danielegr il lun apr 19, 2010 19:22 pm, modificato 1 volta in totale.
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Messaggioda danielegr » lun apr 19, 2010 18:59 pm

Ooops!!! Mi accorgo che manca un'immagine: eccola
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Messaggioda danielegr » lun apr 26, 2010 9:16 am

Ma la piccozza, l'inseparabile amica dell'alpinista, è servita anche per altri scopi: Mattia Zurbriggen nel 1897 la lasciò sulla vetta dell'Aconcagua per testimoniare il fatto che aveva conquistato la vetta (per di più in solitaria). E' servita per sostenere le bandierine sulla vetta del K2, è servita (purtroppo) anche per scopi molto meno nobili come arma di offesa (assassinio di Trotzky per esempio)
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I nostri fanti, nella guerra 15/18 usavano uno strano aggeggio, porta-piccozza e porta-baionetta insieme: La piccozza era ancora con la paletta a taglio verticale. Immagine




Riprendiamo la storia della nostra salita all'Adamello
Arriviamo ad un paesino in Val Saviore, lasciamo la Lambretta e gambe un spalla verso il Rifugio Prudenzini. Era già quasi buio quando ci siamo messi in marcia, e naturalmente arriviamo al rifugio che oramai era notte. Strano, non ero abituato a camminare in montagna di notte però la cosa non mi impressionò assolutamente. Mi sembrava quasi di conoscere la strada (d'altronde era una mulattiera piuttosto comoda) e andavo in perfetta tranquillità. Niente a che vedere con la paura che proprio mi prese un paio d'anni più tardi arrivando di notte con la Vespa ai Piani Resinelli: dovevo andare alla SEM, un quarto d'ora di strada dal parcheggio: appena spento il fanale mi sembrò di essere nel punto più nero dell'universo. Quel quarto d'ora mi sembrò lunghissimo...
Mi pare che non avessimo nemmeno una corda, peraltro non mi pare che fosse indispensabile sul Pian di Neve. Ho guardato su Internet alcune foto recenti del Pian di Neve e sì, proprio sì, adesso la corda, unita a una buona esperienza alpinistica la credo indispensabile. Allora le condizioni di innevamento, unite anche alla nostra giovanile incoscienza, permettevano di salire senza problemi.

Arriviamo al Rifugio Prudenzini e purtroppo non c'è più posto: l'unica sistemazione possibile è sdraiarsi sul pavimento e cercare di arrangiarsi. Non ricordo se il custode ci avesse o meno distribuito delle coperte, però, bene o male (più male che bene) passa la notte e al mattino siamo pronti per ripartire. D'altronde a vent'anni questi inconvenienti si superano con grande facilità. La salita è tutto tranne che difficile, lunga, faticosa ma certamente facile, una camminata in sostanza. E alla fine ci affacciamo ad un colletto, oltre il quale si estende, maestoso nella sua uniformità, il Pian di Neve, con in fondo la vetta dell'Adamello. Poco prima di arrivare a quel colletto sentiamo un gran frastuono, un rumore che non avevo ancora mai sentito: era crollato un grosso seracco, a una discreta distanza da noi, quindi nessun danno, ma un po' di paura, quella sì, la devo ammettere.
La salita era stata senza storia: oltre a noi salivano anche un altro paio di comitive, una delle quali era composta o da preti o da seminaristi. La discesa è stata più divertente... visto il pendio invitante abbiamo piazzato il sedere per terra e giù!! (lo so che non è un sistema ortodosso, ma allora non lo sapevo e anzi, lo trovavo divertentissimo...). Il bello è che verso metà della discesa mentre stiamo superando la comitiva dei preti (o seminaristi), partita poco prima di noi, uno di questi scendendo a raspa, ha letteralmente spezzato il manico della piccozza... Era una piccozza con un manico di circa 150 centimetri e il poveretto, quasi piangendo, diceva che non era neanche sua, che glie l'aveva prestata non so più quale parente, che era quasi un cimelio storico... Alfredo e io abbiamo fatto molta fatica a non scoppiare a ridergli in faccia. Poi, di nuovo giù il sedere e via.
E poi, rimanendo in tema di piccozza, sapete che ce n'è una sul Duomo di Milano? E' sul tetto, all'ingresso dell'ultima scala. Eccola insieme alla corda e agli scarponi:

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Messaggioda danielegr » mer mag 12, 2010 12:38 pm

Leggevo poco fa una discussione in merito all'acquisto di un martello di un tipo, anziché di un altro e ho visto quindi le caratteristiche dei moderni martelli da roccia. Niente a che vedere con quello che usavamo negli anni '50-'60 naturalmente. Non sono riuscito a trovare nessuna foto di martelli della mia epoca, e il mio vecchio martello è stato smarrito in un campeggio, e quindi ho dovuto arrangiarmi a modificare la foto più simile che sono riuscito a beccare: eccola:
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Lo so, il disegno fa schifo, ma la grafica non è mai stata fra le mie doti, quindi faccio quello che posso. In effetti il manico era un po' più corto, però la massa battente è abbastanza simile. Il foro in basso serviva naturalmente a farci passare un cordino che poi veniva passato a tracolla. Innanzi tutto il martello noi lo tenevamo in tasca: niente portamartelli come quelli che ho visto curiosando sul Web. La tasca, che naturalmente era posteriore, era meglio che fosse una tasca "applicata" anzichè intagliata come sono le normali tasche dei pantaloni. Io mi ero fatto cucire da mia mamma una tasca, un po' sborsata per maggior comodità, in cuoio e funzionava benissimo.
In pratica non c'era quella che ho visto definire come una punta levachiodi. Credo anzi che il voler levare un normale chiodo facendo leva con questa punta possa essere una fonte di rischio: l'uscita improvvisa del chiodo sotto lo sforzo della leva potrebbe causare una perdita di equilibrio. D'accordo che chi toglie i chiodi è, di solito, il secondo, ma non mi pare un buon motivo per fargli gustare l'ebbrezza del volo...
Noi preferivamo, come del resto ho visto in uno dei post di risposta, martellare lateralmente il chiodo, qualche botta da una parte e qualcuna dall'altra, fino a che il chiodo non si liberava da solo o fosse bastato semplicemente estrarlo a mano. Solo nei casi più ostici si ricorreva alla catena di moschettoni, tenendo però presente che con l'ultima scossa della catena il chiodo sarebbe sì uscito, ma avrebbe potuto rimbalzare e fare male.
Quanto pesavano i nostri martelli? E che se lo ricorda più... Così a occhio direi intorno ai 500-600 grammi. E quando l'ho comprato l'avrò pagato un migliaio di lire o poco più.
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Messaggioda danielegr » sab giu 05, 2010 17:46 pm

No, qui la montagna c'entra poco, anzi niente, se non per il fatto che la storia ebbe luogo presso la sede del CAI di Milano, in via Silvio Pellico e con le finestre che danno sulla Galleria, il salotto buono di Milano. Almeno allora (anno 1959 o giù di lì) era così, adesso non lo so: sono più di vent'anni che non ho occasione di vedere la Galleria, l'Ottagono, il toro al quale calpestare i testicoli (*) eccetera.

Comunque una sera alla settimana la sede rimaneva aperta fino alle 10 o 11, mi pare al mercoledì, e in quella sera ci si riuniva, si chiacchierava, ci si prendeva in giro (perché no), ci si lanciavano sfide, ci si metteva d'accordo per le arrampicate del sabato e domenica. Era un gruppo parecchio affiatato e, una parola tu, una parola io, si arrivava all'ora di chiusura senza accorgersene, mentre il segretario di allora (il mitico Gildone) incominciava a sbuffare perché doveva chiudere e noi eravamo ancora lì a rompere le balle.
Di solito dopo essere stati buttati fuori dal Gildone si andava in una osteria lì vicino che aveva un barolo stupendo e un locale sotterraneo nel quale potevamo bere, cantare, urlare senza il rischio di dar fastidio a qualcuno. Era la nostra meta fissa dopo la riunione alla sede del Cai. No, non vi do l'indirizzo per due ottimi motivi: non me lo ricordo anche se saprei andarci (manco da Milano da un bel po') e, soprattutto, quel locale ha chiuso nei primi anni '60 con nostro grande dispiacere.
Ma questa era solo una divagazione: non ricordo se quella sera andammo o no a quell'osteria. Il punto è che fra me e Beppe M. era sorta una specie di sfida, una di quelle cose stupide che i ragazzi di vent'anni fanno, ma che, se non le facessero, non meriterebbero di avere vent'anni (o poco più: diciamo 23-25). La sfida era: sei capace di scendere a corda doppia dalla finestra dei CAI direttamente sulla Galleria?
Come si fa a rifiutare una sfida simile? Le finestre del CAI erano (e credo siano ancora) quelle che nella foto ho leggermente schiarito, subito sopra a quel tendone con scritto ?il Salotto?. Detto fatto, prendiamo una corda dalla sottosezione SUCAI, la passiamo intorno alla ringhiera, la gettiamo in Galleria e, prima Beppe poi io, scendiamo con tanto di cappotto e cappello (non saprei indicare la data, probabilmente i primi di marzo e in quel periodo a Milano fa freddo e quello era l'abbigliamento adatto).

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Appena sceso Beppe, mentre stavo scendendo io arriva come un falco un Vigile urbano (la Galleria è sempre stata sorvegliatissima) che minaccia di portarci dentro tutti e due... Le nostre spiegazioni (è una scommessa, e poi è Carnevalino, siamo alpinisti e se non facciamo queste cose dalle finestre del CAI, allora dove possiamo farle?) alla fine lo convincono, non senza averci severamente redarguito e diffidati dal farlo un'altra volta!!

(*) spiegazione per i non milanesi: nell'ottagono della Galleria ci sono i simboli di varie città, fra i quali il simbolo di Torino, rappresentato da un toro. E' usanza, soprattutto per le ragazze, ma non solo, puntare il tacco (meglio se a spillo) sui testicoli della povera bestia e fare un mezzo giro. Si dice che porti fortuna. Effettivamente in quel punto le piastrelle sono talmente consumate che ogni tanto il Comune deve ? riparare le balle al povero toro. Questo è uno dei tanti interventi riparatori.

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Messaggioda granparadiso » sab giu 05, 2010 22:04 pm

Bhè, carissimo danielegr, per quello che può contare chiedo "ufficialmente" agli ADMIN, di segnalare questo topic come Importante in questa sezione
dopo tutto quello che ci stai raccontando sarebbe il minimo
babbo....
è....
quindi le montagne tengono su il cielo!

(mio figlio dopo aver visto Bonatti e Messner)

Mitakuye oyasin
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